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Il progetto “Biotech, il futuro migliore”, promosso da Assobiotec, prosegue con un focus sulla bioeconomia circolare. Andiamo a conoscere Biova Project, che ha fatto dello spreco del pane una risorsa per produrre la birra (e non solo)
“L’economia circolare non è un’invenzione, è un modo diverso di vedere le cose”, ci dice Franco Dipietro uno dei due soci fondatori di Biova Project.
E lui, assieme alla co-founder del progetto Emanuela Barbano, è stato capace di vedere nel pane scartato da ristoranti, grande distribuzione o panificatori, una risorsa che può dare origine a un nuovo prodotto: la birra.
“Se non si considera subito scarto quello che resta alla fine di una lavorazione, allora è possibile allungare la vita agli oggetti”, ha sottolineato Dipietro.
Il concetto di rifiuto è stato inventato in epoca industriale, ed è un oggetto che non appartiene nemmeno al mondo naturale. “Ecco perché l’obiettivo a cui tendere è la produzione di meno rifiuti grazie al loro riutilizzo”.
Perché proprio la birra?
La birra è un ottimo prodotto per riutilizzare il pane invenduto. Anche perché proprio l’utilizzo del pane permette di risparmiare materia prima. Infatti, il pane arriva a sostituire fino al 30% del malto d’orzo usato per la fermentazione della birra.
150 Kg di pane consentono di produrre 2500 litri di birra, con il risparmio di 3 quintali di malto d’orzo.
“Il minor utilizzo del malto d’orzo ha ricadute importanti sulla tutela dell’ambiente. La coltivazione e poi il trasporto verso la Germania, dove avviene in prevalenza la maltatura, richiede spese ingenti e ha un forte impatto sulla produzione di anidride carbonica”, spiega Dipietro.
La filiera allestita da Biova Project riduce, oltre ai rifiuti, anche le emissioni di anidride carbonica.
Un’idea che nasce dall’esperienza
È l’impegno nel volontariato che fa emergere l’idea di Biova Project. “Mi sono avvicinato ad associazioni che si occupano di lotta allo spreco alimentare per motivi di lavoro, in qualità di comunicatore. Ho fondato una ditta di produzione video e per dieci anni ho fatto il regista”, racconta Dipietro. “Oggi invece mi occupo al 100% di Biova Project, perché penso sia un progetto concreto, capace di aggiungere valore alla società”.
Colpito dal valore sociale dell’attività di redistribuzione di beni alimentari e dall’indicibile mole di cibo sprecato, Dipietro inizia a fare il volontario.
“Il pane è più sprecato di altri alimenti: nonostante lo ritirassimo e lo andassimo a proporre alle mense dove bussano le persone bisognose, non veniva accettato neppure lì perché di pane ce n’era sempre in eccedenza”.
Biova Project nasce con l’obiettivo principale di ridurre lo spreco alimentare, ma il modello di business era tutto da costruire. “Quello che facevamo in modo artigianale e umano, come volontari per un’associazione, dovevamo trasformarlo in un modello logistico, profittevole e scalabile. Doveva diventare un business. È giusto che il no-profit si occupi di fare del bene al mondo ma è ancora più importante che lo faccia il profit”.
Lo spreco alimentare nel mondo
Secondo le stime pubblicate lo scorso febbraio nel report di Waste Watcher International Observatory on Food and Sustainability, in cima alla classifica degli sprechi alimentari c’è la frutta fresca (37%), seguita dalla verdura (28%). Il pane è al terzo posto, ammontando al 21% degli sprechi.
L’intera filiera dello spreco di cibo ammonta a 3.624.973 tonnellate e vale quasi 10 miliardi di euro (dati Waste Watcher International/ DISTAL Università di Bologna).
La dimensione del fenomeno si percepisce nelle parole di Dipietro: “Vedere il volume occupato da 100 kg di pane gettato, e provare a confrontarlo con i 13mila quintali che restano invenduti ogni giorno in Italia, fa immaginare una possibilità di miglioramento”.
Un movimento che invoca la corresponsabilità sociale
Nasce così Biova Project, che non è solo un business, ma anche un movimento. Lo si capisce dal criterio usato per la selezione di stakeholder e dalle modalità studiate per coinvolgere i consumatori.
Tutti gli stakeholder hanno a che vedere con il concetto di uso, di un esubero o di riutilizzo di un bene o puntano all’equiparazione delle responsabilità.
“Volevamo creare un’azienda profit capace di lasciare qualcosa di positivo sul territorio. Abbiamo organizzato il ritiro e la trasformazione del pane a km zero, per limitare l’impatto ambientale. E per farlo abbiamo coinvolto onlus e volontari che sosteniamo economicamente. Anche gli impianti di produzione non sono nuovi birrifici, ma andiamo a sfruttare gli spazi produttivi inespressi”.
Dal lato consumatore, l’attenzione è rivolta al packaging che propone materiali nuovi e più sostenibili per l’ambiente. Completano le confezioni gli slogan, come “Noi lo spreco ce lo beviamo”, e le nuove parole inventate. Servono a diffondere la cultura della lotta allo spreco e a offrire un cambio di prospettiva.
“Cerchiamo di far emergere la parte positiva di questo circuito che abbiamo creato e non ci soffermiamo sulla negatività dello spreco. È importante far capire alla gente che l’economia che avanza non è necessariamente di minor valore”.
Progetti futuri
Il movimento creato sta permettendo a Biova Project di trasformarsi in Benefit Corporation, cioè di scrivere un nuovo statuto aziendale e di darsi obiettivi più alti.
Una B-corp è uno strumento legale che permette di creare una mission e valore a lungo termine, attirare investimenti e crescere.
E infatti l’idea per il futuro non è quella di fermarsi alla produzione di birra. “Abbiamo già avviato una sperimentazione con Ri-Snak”, preannuncia Dipietro.
Si tratta di chips ottenute dalle trebbie, cioè dagli scarti del malto d’orzo, che derivano dalla birrificazione. “Il malto d’orzo esausto ha ceduto gli zuccheri ma ha un alto apporto proteico, così ricco che per produrre gli snack servono il 40% in meno di materie prime. Così facciamo upcycling, cioè una produzione dagli scarti che noi stessi produciamo”.
Ma la curiosità del fondatore di Biova Project non si ferma qui. Anzi, punta ad allargare la gamma dei prodotti a partire da altri tipi di scarti alimentari.
Il futuro della bioeconomia visto da qui
Per andare oltre ai sogni della singola azienda, però, è giusto chiedersi cosa è necessario per il futuro della bioeconomia circolare. Dipietro comincia il racconto dalla sua esperienza personale, quando prima ancora di fondare un’azienda si è trovato a dover costruire il sistema logistico del materiale di partenza. Ed è ancora forte l’impegno per organizzarlo.
“Quello che manca alla bioeconomia di oggi è una filiera logistica: manca il sistema di approvvigionamento per il materiale di recupero”.
Dall’altra parte, è indispensabile una maggiore educazione dei consumatori. “Ci sono persone che riconoscono subito il valore di un’operazione come la nostra. Altre sono scettiche nel momento in cui viene proposto loro di bersi lo spreco”!
Infine, ci sono problemi legislativi, perché un prodotto invendibile spesso non è riutilizzabile per creare qualcosa di nuovo.
“Vedo uno sforzo di tanti singoli mentre ancora non vedo lo sforzo collettivo. Occorre una maggiore collaborazione tra le singolarità eccellenti che sono presenti nel nostro Paese”, conclude Dipietro.