Dirige il Copenhagen Institute for Interaction Design (che ha fondato). A StartupItalia racconta come un mondo nuovo è possibile. E il progetto di una nuova sede nel nostro Paese
È partita da Dresano, provincia di Milano, poche anime, per iscriversi a Economia nel capoluogo. Dopo un anno e sette esami ha cambiato strada. “Ricordo che non avevano neanche il modulo per farlo, era una scelta inspiegabile per la segretaria. Ma non mi sentivo a posto”. Al Politecnico è capitata per caso: serendipity, e la lezione che le ha cambiato la vita, alle cinque del pomeriggio di uno stanco maggio, non era neanche un corso curriculare. Il giorno dopo si è iscritta ad Architettura. Ma Simona Maschi (che sarà ospite al Sios Sardegna) non disegna case: progetta interazione, servizi, esperienze. E lo fa dalla Danimarca, da dove dirige il Ciid (Copenhagen Institute for Interaction Design). Che, quindici anni fa, fu proprio lei a fondare. Si racconta qui sotto a StartupItalia, e lo fa con sincerità, prendendosi il tempo di riflettere e ragionare. Non ha la risposta pronta, insomma: ci pensa, valuta, soppesa. E questa, dal punto di vista di un intervistatore, è senz’altro una qualità.
Intervista a Simona Maschi
Per cominciare, vorrei che mi raccontasse di sé. Come è arrivata in Danimarca, rispondendo a quale esigenza personale e non solo ha fondato l’Istituto? Quando, e come mai proprio a Copenhagen?
Devo dire che, a ripensarci, ho cambiato spesso collocazione. Ho frequentato un anno di Economia: mi piaceva, ma non mi sentivo soddisfatta a livello personale e di valori. Negli anni ’90 il paradigma economico era “più cresci, meglio è“. Riconosco che la formazione a livello di gestione di impresa mi è stata utile, ma in quel mondo non mi rivedevo.
Galeotta fu una vacanza in Olanda, in bicicletta.
Sì, con un’amica, un mese in ostelli, alla fine ci siamo pagate il soggiorno cucinando. Quel viaggio mi ha aperto gli occhi su valori, strategie, visioni a cui non ero mai stata esposta. Ad esempio, era nuova l’idea che il governo olandese aiutasse i contadini a ospitare un mulino a vento moderno per produrre energia elettrica per loro stessi e la comunità, l’attenzione alle fonti rinnovabili, lo stesso uso delle bici. A Milano a certe cose non si badava. Lì ho intravisto, per la prima volta, che le aziende possono avere come obiettivo ultimo la sostenibilità del pianeta. Ai tempi, prevaleva il business as usual: si faceva quello che si faceva, poi, al massimo un dipartimento dedicato alla CSR (Corporate Social Responsibility, ndr) si occupava di rimettere tutto a posto coi consumatori dal punto di vista della comunicazione.
L’incontro decisivo è quello con Stefano Marzano di Philips.
Sono tornata in Italia e ho deciso di lasciare Economia. Ho avuto la fortuna di capitare al Politecnico di Milano nel pomeriggio in cui l’ateneo ospitava una sua lezione. Era il primo chief design officer al mondo. Ho chiesto a un ragazzo: che facoltà è, questa? Mi ha risposto: Architettura. E il giorno dopo mi sono iscritta. E pensare che quella non era nemmeno un intevento curriculare…
Cosa l’ha colpita?
Marzano sosteneva che il design non è solo estetica ma sostenibilità creativa. Non aveva più senso, se non in sintonia con l’ambiente. Servivano prodotti coscienti del proprio impatto. Oggi è mainstream, ma ai tempi o eri figlio dei fiori oppure di queste cose semplicemente non ci si curava.
Lei non ha mai costruito case.
Mi interessava come si vive all’interno. Come gli appartamenti si riscaldano o meno, il consumo di cibo che si fa, il lavorio in cucina, i vestiti. Come mentor, ho avuto la fortuna di avere Ezio Manzini, grande teorico del design sostenibile, che continua a ispirarmi. Con lui ho scritto la tesi di dottorato. I prodotti sostenibili già esistevano, ma da quegli studi emerse chiaramente che il problema erano i comportamenti delle persone. Posso avere una lavatrice che consuma pochissimo: ma se la uso male… E’ qui che la progettazione diventa open innovation. Perché l’innovazione non può essere controllata e gestita da un’azienda sola: e l’open innovation serve alle aziende quando obiettivi vanno oltre il fatturato. Da soli è quasi impossibile risolvere il rebus.
Finisce il dottorato. Poi?
Vado a Ivrea, alla prima scuola di interaction design nata grazie a quaranta milioni messi a disposizione da Telecom. Lì ho capito che la tecnologia poteva consentire di comunicare e condividere dati tra aziende e organizzazioni che lavorano in modi completamente diversi, ma anche di creare consumi ottimizzati: per farlo, bisogna connettere le persone. Dopo Ivrea, nuova tappa a Copenhagen. Pare una barzelletta: un’italiana, un israeliano, un danese, un inglese e un cane. Io sono venuta perché mi sposavo, altri hanno rischiato di più. E’ bastata una mail con un’idea, e il giorno dopo hanno stanziato fondi per tre mesi. Poi il progetto è nato sul serio, e mi sono fermata. Quello che volevamo fare si chiama user driven innovation: i soldi venivano dal ministero, che si era reso conto che l’industria doveva cambiare, e l’innovazione doveva essere guidata dagli utenti. La Danimarca è sempre stata all’avanguardia su questo. Così è nata la nostra scuola. Tra i primi docenti, Massimo Banzi, creatore di Arduino, che ancora collabora. In poche settimane ricevemmo sulla fiducia 187 richieste di iscrizione. Non avevamo ancora scritto neanche il piano di studi.
Nel 2020 avete aperto una sede in Costa Rica.
Ci siamo espansi in un posto dove la open innovation è basata sulla vita. La natura come mentor per creare nuovi prodotti e servizi: bisogna tenerla presente al tavolo delle decisioni, perché l’obiettivo oggi non è più la mera riduzione dell’impatto, ma la rigenerazione delle risorse. La natura non si ferma mai, è una continua prototipazione, e anche noi dovremmo imitarla un po’. Il fine non è la crescita, ma l’evoluzione: questa è stata la mia epifania degli ultimi anni. Il paradigma basato sul concetto di crescita continua non è sostenibile dal punto di vista economico e sociale.
Cos’è l’interaction design? A chi si rivolge?
Studia e progetta il modo in cui l’uomo interagisce con le macchine digitali. Nasce negli anni Ottanta dall’industrial design, con i primi computer: non si sapeva come usarli né come farli usare dal pubblico. Serviva un’idea, ma si partiva da zero. Oggi questi sono aspetti scontati: ma è stato proprio questo lavoro a monte che, negli anni Duemila, ci ha consentito di passare a un uso diffuso della tecnologia.
Un esempio?
Il digitale offre molte più possibilità di interazione uomo-macchina. Non è come un bicchiere, con cui di solito ci si limita a bere: le possibilità di impiego sono migliaia. Definirle tutte è impossibile, ognuno lo usa a modo suo. Allora Bill Verplank ha suggerito di usare la metafora del desktop, della scrivania: all’utente bisogna dare un aggancio concettuale. Da lì è nata anche l’idea del mouse, come estensione della mano, un gesto noto: l’idea che sta alla base è quella di cercare qualcosa nello spazio.
Che epoca è, la nostra?
Oggi grazie al digitale e anche all’interaction design è possibile a tutti fare la propria parte. Per quanto riguarda le aziende, dalla rivoluzione industriale in avanti, l’innovazione è stata gestita internamente perché ritenuta un vantaggio competitivo: ci si rinchiudeva in una stanza e si manteneva tutto segreto. Ma siamo sempre alla logica dell’uno che deve crescere più degli altri. Oggi le cose sono cambiate: sono eccitata, perché ci stiamo rendendo conto che facciamo parte di un ecosistema: e sostenibilità significa essere in grado di mantenere il mondo perlomeno nelle condizioni in cui è oggi, se non migliorarle. Potremmo dire che c’è un’azienda unica, cui partecipiamo tutti, che è il Pianeta. Insomma, l’obiettivo di pensare solo al proprio successo fa parte del passato. E’ necessario cercare di creare valore aggiunto non solo individuale. Gli SDG sono la ricerca di mercato più grande nella storia dell’economia: una descrizione dei bisogni più urgenti dell’umanità. E ,dove ci sono dei bisogni, ci sono dei mercati da creare, qualcuno che deve realizzare prodotti e servizi, aziende che devono ancora essere concepite e nascere. Prenda una lettera come quella di Blackrock del 2020 (in cui si annunciava la svolta green del fondo, ndr). Fu un segnale forte.
Fu un segnale. Ma gli impegni vanno verificati, e i dati dei grandi fondi di investimento, per il momento, dicono ancora altro. Un amministratore delegato risponde sempre agli azionisti, che guardano le trimestrali, le quali a propria volta valutano la crescita. Difficile che la leva per il cambiamento possa venire da lì. E quindi da dove, secondo lei?
Probabilmente non saranno gli amministratori delegati né gli azionisti, ma i consumatori a catalizzare il cambiamento. Saranno loro a richiedere di passare il proprio tempo con organizzazioni che valorizzano la rigenerazione economica e ambientale. Una ricerca recente afferma che il 75% consumatori in Europa non comprerà più prodotti privi di certificazioni verdi. Gli stessi dipendenti, in futuro, si rifiuteranno di lavorare per queste aziende: c’è una pressione inedita a livello etico e di inclusione.
Quali sono i marchi, se vuole citarne qualcuno, più aperti all’innovazione dall’esterno?
In Italia, Enel; a livello internazionale mi vengono in mente Philips, Patagonia. E poi Lego, che vive di una community di bambini.
Qual è il progetto di cui va più orgogliosa? E perché?
Bella domanda, non me l’ha mai fatta nessuno. (Ci pensa, ndr). È avere portato alla laurea tanti studenti, per l’impatto che le loro tesi e prodotti avranno sul mondo. Gli ex alunni formano una community bellissima, con cui siamo al 100% in contatto. Peraltro, stiamo pensando di aprire in Italia.
Dove?
Potrebbe essere a Como, Bologna o Firenze. Mi interessa lavorare con le scuole, la municipalità, avere vicino un aeroporto. Vedremo.
Viviamo in una società estremamente tecnica, che conta sempre di più anche nei percorsi di studi. D’altro canto, almeno per la nostra generazione e sicuramente per quelle precedenti, era estremamente importante possedere una formazione di base ampia, che poi è il serbatoio per stimolare la creatività. Allora: abbiamo da una parte le esigenze di tecnici, dall’altra quelle di creatività. Come si mettono insieme in un sistema ideale?
La maggior parte delle mie risposte partono dalla rivoluzione industriale, che ci ha fornito prodotti e benessere. Ma prima di essa, produzione e offerta erano molto più equilibrate: e la sostenibilità era una best practice, non un vezzo. Mente creativa e razionale erano molto più integrate: un artigiano vedeva il problema e subito si applicava per risolverlo. La rivoluzione industriale ha completamente cambiato la logica: le economie di scala richiedono indagini di mercato per giustificare la spesa per i macchinari, così tutto va pianificato in anticipo. Si perde la parte di prototipazione tipica dell’era preindustriale: alle macchine bisogna dare un input che sia perfetto, da subito. Si è arrivati così al prevalere di una mentalità ingegneristica dove tutto deve essere calcolato prima, e senza errori.
E la scuola del futuro, allora?
Si tornerà lì da dove siamo partiti, a una integrazione del pensiero creativo con quello più razionale. Sta svanendo anche l’opposizione tra lavoro e progetti individuali: manager illuminati si sono accorti che chi è libero di seguire la propria strada è più soddisfatto.
Siamo alla fine. Vuole consigliare un libro?
Certamente. Scelgo “Abitare la prossimità”del mio mentore Ezio Manzini.
Simona Maschi sarà al Sios Sardegna 2022.