Non solo un canale di promozione: tentare di controllare ogni passaggio nella viralità del social network di photosharing sta diventando una sfida per (quasi) tutti gli chef, specie i più celebri. Perché una foto sbagliata può ferire più di una recensione negativa
Quasi 180 milioni di foto categorizzate con il tag #food, 56 con #foodporn. La fotocamera – dice un articolo su Wired Usa – è ormai fondamentale quanto una forchetta, per nutrirsi. Il punto è che no, non lo è per il consumatore – o almeno non solo – quanto per la cucina professionale. In altre parole, ed era ovvio che accadesse perché è successo in molti altri ambiti, dalla moda alle auto, la fotografia diffusa e iperframmentata ha modificato il modo in cui gli chef si vedono e si ve(n)dono. La strada cioè attraverso la quale scovano nuove idee – il che, in parte, l’aveva già detto poco tempo fa l’incorreggibile David Chang, con un giudizio non esattamente lusinghiero – ma anche tramite cui le loro, di idee, arrivano al mondo. O almeno a un pezzo di mondo.
Reggere l’urto della viralità
Insomma, dell’ossessione dei clienti gli chef non possono farne a meno. A parte alcuni – come il francese Alexandre Gauthier della Grenouillère a Montreuil-sur-Mer, regione Nord-Passo di Calais ha fatto l’anno scorso – che vietano gli smartphone nei loro ristoranti in una disperata lotta contro la dipendenza da scatto prealimentare, gli altri si rendono conto che conviene cavalcare il fenomeno. Non tanto per mere questioni di promozione – quelle ci sono, per carità, Jamie Oliver ha 2,8 milioni di follower – ma perché le loro creazioni circoleranno comunque su Instagram e dunque non si tratta più di tenere d’occhio solo il proprio account, popolandolo con contenuti e scatti impeccabili che spesso possono provocare assurdi picchi nelle prenotazioni nei loro locali, ma fornire un’esperienza gastronomica che regga l’urto della viralità in mobilità. Mica facile.
Le assurdità degli chef
“Tutto ruota intorno all’esposizione – racconta per esempio a Wired Usa Dominique Crenn dell’Atelier omonimo a San Francisco, prima donna statunitense ad agguantare due stelle Michelin – Instagram dà una voce agli chef e al cibo che servono”. Giusto. Ma apre le loro scelte ad atteggiamenti giustificati per quanto assurdi, in linea d’altronde con le fissazioni dei clienti. Ce ne sono a bizzeffe: “Sarò onesto – aggiunge Benedict Reade, già al Nordic Food Lab di Copenhagen ora impegnato in un nuovo progetto in Scozia – se ho a portata un piatto che è venuto meglio, alla gente servo quello affinché scattino foto”. Insomma: nulla deve andare storto. Non solo le classifiche delle prestigiose riviste di cucina o, appunto, i riconoscimenti delle associazioni internazionali: il primo canale di riconoscimento sta diventando il social di videophotosharing controllato da Facebook.
Instagram dà una voce agli chef e al cibo che servono
Una prova? Ned Bell, del Four Seasons Hotel di Vancouver, racconta che una foto venuta male lo fa irritare ben più di una cattiva recensione. Sulle opinioni si può evidentemente discutere, sembra pensarla il cuoco, ma una foto poco appetitosa o in effetti povera, grigia, storta o semplicemente brutta, può fare molti più danni. Un atteggiamento che si estende in automatico, dunque si espande, dal piatto e dalla portata al contesto, all’ambiente, ai dettagli. C’è infine un altro problema, davvero poco digitale e legato all’esperienza diretta, che poi dovrebbe essere quella per cui c’infiliamo in un ristorante più o meno blasonato. Quello che rischia di toccare chi pretende di pubblicare in tempo reale sulla piattaforma, spendendo (e perdendo) tempo: mentre si cerca l’angolatura giusta e applicano i filtri, la pietanza si raffredda. “Sai quanto ho sudato per portare quel cibo alla temperatura ideale? – si domanda contrariato Reade – sei qui solo per mostrarlo ai tuoi amici?”. O magari, come sarebbe il caso, per mettere da parte quel maledetto telefono e mangiare?