Per la prima puntata del viaggio nella space economy alla scoperta delle startup spaziali intervista esclusiva a Luca Parmitano, astronauta dell’ESA impegnato alla NASA a Houston. In Italia il mercato di osservazione satellitare vale 200 milioni. «Ogni euro investito nello spazio ne genera un ritorno di sette»
«Le startup hanno un approccio fresco, diverso e non legato al classico modo di fare tecnologia spaziale. Se abbiamo vettori che rientrano sulla Terra è grazie a un modo nuovo di avvicinarsi allo spazio. Tante startup italiane vengono qua a Houston per consolidare mercati e conoscenze. È qualcosa che ho notato soprattutto negli ultimi anni». Luca Parmitano è il noto astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea e lavora da tempo in Texas, unico europeo integrato nel corpo astronauti della NASA. StartupItalia lo ha raggiunto per questa intervista esclusiva di lancio dello speciale dedicato alle space startup. Viaggio che con questa puntata parte dai numeri del settore, facendoci accompagnare da una delle figure più autorevoli per capire che ruolo stanno giocando Italia ed Europa nelle sfide di frontiera. Nel futuro prossimo l’umanità punta al ritorno sulla Luna (Missione Artemis), passaggio obbligato per traguardare uno degli obiettivi del secolo: Marte. Con Luca Parmitano abbiamo parlato di turismo spaziale, di innovazione e di investimenti strategici. Come sempre, però, partiamo da qualche numero per inquadrare il mercato.
I numeri dell’Italia
Stando ai numeri pubblicati in un report dell’ASI, l’Agenzia Spaziale Italiana, le startup finora si sono specializzate soprattutto nel segmento downstream (83%), contro il 17% focalizzato sull’upstream. Si tratta di una distinzione sostanziale, che è bene conoscere: sotto la definizione di downstream rientrano tutte quelle attività commerciali legate alla elaborazione e all’uso dei dati e dei servizi forniti dalle tecnologie spaziali (comunicazione satellitare, osservazione della Terra, navigazione GPS). Si tratta di tecnologie che hanno impatti diretti sullo sviluppo in vari campi come l’agricoltura e la pianificazione urbana. L’upstream racchiude invece quelle operazioni più comunemente associate alla space economy, come la fabbricazione di satelliti o di razzi. Se si guarda al comparto delle PMI in Italia la situazione è più bilanciata: 48% lavora per upstream e 52% per downstream. «Per quanto riguarda l’orbita bassa terrestre – ha commentato Luca Parmitano – le startup hanno rivoluzionato l’approccio al volo spaziale. Sono partite da un oculato utilizzo di risorse pubbliche per creare tecnologia nuova. Sull’esplorazione a lungo termine non ci sono però ancora risultati concreti di questo approccio. È ancora in mano al mondo tradizionale, anche se ci sono progetti di sviluppo davvero innovativi».
Andando più a fondo nei numeri del mercato, l’Italia gioca un ruolo di primo piano a livello europeo. Secondo i dati degli Osservatori Digital innovation del Politecnico di Milano, il mercato legato ai servizi di osservazione della Terra ha raggiunto i 200 milioni di euro. Il Paese è peraltro il terzo contribuente dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) con quasi 600 milioni di euro investiti (guida la Francia seguita dalla Germania). Pubblico e privato stanno dunque procedendo in quello che gli esperti hanno definito un consolidamento del settore in vista delle sfide future. Sul protagonismo europeo Parmitano è ottimista. «Come ESA stiamo spingendo nel dire che il vecchio continente è molto presente nella space economy. Con un budget che vale un quarto di quello della NASA sosteniamo programmi spaziali dello stesso livello di qualità. I nostri programmi di osservazione terrestre sono poi i migliori al mondo».
Socio fondatore dell’ESA, l’Italia è anche uno dei pochi Paesi al mondo con un’agenzia nazionale dotata di un budget superiore al miliardo di dollari. Rapportato al PIL, la spesa sullo spazio ci vede nella top 10 a livello mondiale. Come ha riportato il Sole 24 Ore, anche il PNRR ha giocato un ruolo importante nell’allocazione di risorse: 2,3 miliardi di euro complessivi, che portano il budget totale a 4,6 miliardi di investimenti pubblici da parte del nostro Paese. Tutto questo per fare che cosa? Lo abbiamo chiesto a Luca Parmitano, che nel corso dell’intervista ci ha restituito elementi utili a capire la ricaduta positiva in termini di ritorno sugli investimenti.
Una infografica pubblicata sulla rivista Limes elenca il numero di aziende italiane del settore attive, regione per regione. Guida il Lazio con 84 (di cui 78 a Roma), seguita da Lombardia con 37 (di cui 22 a Milano), Piemonte con 31 (di cui 30 a Torino) e Campania con 27 (di cui 17 a Napoli). A Milano Leonardo è attiva nel campo della robotica, nella Capitale avviene la produzione dei satelliti di Thales Alenia e nella vicina Colleferro Avio ha il centro di produzione del lanciatore Vega. In Italia sono state censite 1008 applicazioni satellite-based di cui 421 riguardanti l’osservazione della Terra. Il 65% del fatturato complessivo della space economy deriva da enti pubblici nazionali o sovranazionali e agenzie spaziali, mentre il 35% raggruppa le attività di grandi imprese, pmi e startup.
Perché la Luna?
«Ogni euro investito nello spazio genera un ritorno di sette euro; nello specifico un euro investito nel volo spaziale umano porta a un ritorno di 2 euro. Ora che si parla di Artemis è fondamentale che Europa e Italia siano in prima fila come copiloti e non come passeggeri». Un elemento da correggere secondo Luca Parmitano è infatti l’assenza di un programma di volo spaziale umano a livello europeo. «Siamo ancora dipendenti dall’esterno. È uno dei nostri obiettivi primari: aver accesso indipendente allo spazio». Soprattutto in vista di quel che accadrà nei prossimi anni, quando l’umanità dovrebbe tornare sulla Luna (dove manchiamo dal 1972). Capire le ragioni della Missione Artemis è fondamentale anche perché la space economy comporta opportunità di carattere sia scientifico, sia commerciale.
«La Missione Artemis è il logico prosieguo del programma Apollo, partendo proprio dalla mitologia (Artemis è la sorella di Apollo, ndr). Quando l’uomo è andato sulla Luna l’obiettivo non era tanto l’esplorazione, ma la dimostrazione di una superiorità tecnologica». Luca Parmitano fa ovviamente riferimento all’epoca della Guerra fredda, quando le due superpotenze – USA e URSS – hanno duellato anche al di fuori dei confini terrestri. «Da quel progetto è nata senz’altro una filiera industriale che ci ha portato fino a oggi. Ma non siamo più tornati sulla Luna per via dei costi eccessivi. Dopo oltre 50 anni abbiamo la possibilità di creare una architettura completamente diversa. Siamo in grado di costruire una stazione orbitante attorno alla Luna, il gateway. Sarà una stazione molto più piccola della ISS, non sempre abitata. Un punto di passaggio».
L’esplorazione della Luna non avrà il medesimo approccio del passato. Luca Parmitano ci ha spiegato che «negli anni 60 si è limitata a sei punti di atterraggio specifici, ma vorremmo tornarci per conoscerne le regioni polari, zone dove è presente acqua sotto forme di ghiaccio». L’astronauta ha sottolineato che il suolo lunare è ricco di elio-3. «Non è presente sulla Terra ed è indispensabile per la fusione nucleare. È una tecnologia che non è esiste ancora, ma estrarlo dal suolo lunare ha un’ attrattiva molto importante». Le innovazioni necessarie a un futuro in cui l’umanità stabilirà una presenza fissa sulla Luna sono al momento ancora da delineare, ma i problemi da risolvere sono noti.
Il futuro secondo Parmitano
«Dipende da cosa vogliamo fare. Se volessimo restare sulla Luna dobbiamo avere un sistema di riciclo delle risorse. Non c’è ancora un sistema chiuso e non sappiamo riciclare acqua o rifiuti solidi». E se dovessimo andare su Marte? Le cose si complicano ulteriormente. «Il supporto dalla Terra diventa impossibile: dobbiamo pensare a tecnologie autoriparanti, intelligenze artificiali in grado di individuare il problema, mettere in atto la correzione e riparare il sistema. Occorrono inoltre macchine e hardware in grado di resistere al bombardamento costante di raggi cosmici». Parte di queste innovazione potrebbe senz’altro derivare dalle startup, che a livello globale nel 2022 hanno raccolto 8 miliardi di dollari in capitale di rischio (erano 14 miliardi nel 2021). «Chi lavora nelle startup fa parte di generazioni che hanno un nuovo approccio».
Con i voli spaziali di miliardari come Jeff Bezos e Richard Branson il dibattito sulla space economy si è anche arricchito di un elemento pop. Che dire del turismo spaziale? Diventeremo una specie interplanetaria come profetizza Elon Musk? «Il turismo non è un termine proprio. Se è vero che ci sono state alcune persone andate in orbita, lo scopo di queste missioni non è fare scienza. La stazione spaziale internazionale è un laboratorio orbitante, non un hotel. Senz’altro hai una vista privilegiata sul pianeta».