Il passare da una cultura “escludente” a una cultura “includente” è una necessità determinata da elementi oggettivi. Non è più un’opzione possibile, è ormai nelle cose. Già oggi è una realtà fattuale, che piaccia o meno: a scriverlo è Andrea Notarnicola Cociani, che da venticinque anni è consulente per il cambiamento culturale delle imprese e oggi è autore di Global Inclusion 2030, Crescere valorizzando le differenze: un nuovo modello di leadership: un saggio che mette in luce il salto culturale di portata storica con cui sono alle prese organizzazioni e Paesi. Il punto, sostiene l’autore, è creare organizzazioni che mettano al centro non solo il lavoratore, ma la persona nella sua globalità, quindi con le sue aspirazioni, i suoi valori, la sua unicità, la pluralità delle sue esperienze. L’inclusione globale che l’autore approfondisce è una visione che valorizza l’unicità di ogni persona, e quindi le sue differenze, e le riconosce nei fatti.
Cosa vuol dire valorizzare le differenze? E perché è solo valorizzando le differenze che i Paesi, così come le loro imprese oggi possono crescere?
Valorizzare le differenze significa superare una cultura del conformismo che, per esempio, quando è diretta a ricercare leader e persone di riferimento nelle organizzazioni e nella società si affida a figure stereotipiche. Superare il conformismo vuol dire aprirsi a una cultura che permetta a più voci, a più persone, con storie diverse, di esprimere il proprio talento.
Significa, di conseguenza, arricchire le organizzazioni e la società portando al tavolo prospettive e idee differenti che poi generano nuova energia. Sotto questo profilo, dunque, la valorizzazione delle differenze è una questione di pari opportunità e sicuramente anche di sostenibilità sociale – perché sappiamo che, quando si lavora per l’equità, si offre un contributo positivo di trasformazione della società stessa -, ma è anche una questione di business: molte ricerche negli anni hanno confermato che, ad esempio, i gruppi misti sono capaci di prendere decisioni migliori fino all’87% delle volte. Ed è anche una questione di risk management, perché in molti casi organizzazioni conformiste hanno dovuto affrontare autentiche crisi aziendali generate da una cultura fondata sul silenzio, tipica degli ambienti che non includono.
Costruire una cultura che include è ormai una necessità, che genera benefici e vantaggi anche per chi lo fa.
Esistono studi e ricerche che mettono in luce i benefici che le aziende possono avere quando riconoscono la forza di team composti da ogni genere. Per esempio, oltre che una maggiore capacità di prendere decisioni, si sono misurati flussi di cassa per dipendente 2,3 volte più elevati sui tre anni. Sappiamo che i team di vertice in cui sono presenti le donne manifestano la probabilità di un significativo aumento percentuale di utili e che i brand che promuovono la diversità sono scelti con convinzione da tre clienti su quattro, perché bisogna dire che pure la società stessa cerca segni di cambiamento. Ma ci sono molte ricerche che confermano l’impatto positivo dell’inclusione anche in termini macroeconomici. Per esempio, è appurato che i Paesi che hanno il maggior numero di brevetti sono quelli che hanno saputo integrare meglio le persone immigrate, dimostrando dunque la connessione tra contaminazione culturale e innovazione tecnologica e scientifica.
In genere, quando si parla di inclusione delle unicità, ci si concentra su quelle maggiormente dibattute, ovvero di genere, di etnia, di orientamento sessuale… Ma lei ricorda che è notevole il numero di differenze che ciascuno di noi rappresenta e, dunque, offre allo sguardo e al giudizio degli altri. Differenze che possono essere stigmatizzate o, al contrario, accolte e valorizzate. Ci fa degli esempi?
Già nella sua dimensione interiore ogni individuo è unico sotto vari aspetti: per valori, convinzioni, opinioni, personalità, inclinazioni. Poi ci sono le differenze anagrafiche, quelle sociali, organizzative: secondo gli italiani e le italiane, l’età è la prima ragione di discriminazione nei luoghi di lavoro. “Sei troppo giovane per parlare o per partecipare davvero ai processi organizzativi” , oppure “Sei senior e, dunque, non sei sufficientemente smart per affrontare il mondo digitale e agile”: si tratta di stereotipi che tutti toccano con mano.
Esistono, poi, dimensioni come la decisione di fare o meno figli, lo stato familiare, il reddito, il domicilio, le abitudini personali, la spiritualità, l’avere fatto certe esperienze lavorative, la formazione, l’essere o no laureati, piuttosto che l’essere laureati in un’università con il “pedigree” o meno, le scelte estetiche di abbigliamento… Rispetto a ciascuna di queste dimensioni, la persona può essere discriminata ed esclusa nella misura in cui una o più caratteristiche offuscano la percezione del suo valore.
Qual è la sua definizione di esclusione?
Sentirsi esclusi è quando al tavolo di una riunione si desidera presentare una propria idea o punto di vista e, invece, ci si trattiene dal farlo, in quanto si teme di essere ascoltati in modo diverso o non ascoltati del tutto perché, per esempio, si appartiene a una funzione dell’azienda che non è stimata o perché si proviene da una sede geografica di lavoro secondaria o, ancora, perché si è donne da sempre single e, perciò, percepite come figure in qualche modo strane.
Insomma, tutte le volte che si pensa che le proprie opinioni vengano o non vengano ascoltate non in base al contenuto, ma in base all’identità che si rappresenta, ecco in questi momenti si tocca con mano un ambiente che nei fatti non è inclusivo: del resto, un ambiente aperto alle differenze è un ambiente aperto in primis alle differenze di opinione.
Le ragioni per cui, in un’organizzazione, ci si può sentire a disagio nell’espressione di sé sono davvero moltissime. E credo che sia importante cogliere questa pluralità, perché quando noi percepiamo quanto diffusa è la questione della discriminazione, riusciamo a coinvolgere tutti e tutte in un processo di cambiamento. Comprendiamo, cioè, che non è più un discorso di uomini contro donne, di giovani contro senior o di italiani contro stranieri, ma diventa una questione culturale che ci orienta all’ascolto degli altri e delle altre nelle loro identità plurime.
Purtroppo, stereotipi, bias, pregiudizi influenzano non solo il nostro modo di percepire gli altri, ma anche il modo di percepire noi stessi: le persone introverse, per citare solo un esempio, potrebbe veramente convincersi di non avere leadership.
Come si formano stereotipi così duri e spesso irreversibili?
Gli stereotipi sono basati su credenze trasferite da genitori, colleghi, leader, voci del nostro contesto sociale di riferimento, media inclusi. E sono credenze esagerate e distorte su una persona o su un gruppo che prende le forme di una generalizzazione, che non ammette il riconoscimento di differenze individuali. Agli occhi di un italiano un giapponese potrebbe non essere introverso o estroverso, avere dei sogni, dei punti di forza, delle fragilità… È innanzitutto e sostanzialmente un giapponese. Quando ci confrontiamo con una persona molto diversa da noi, la sua identità ai nostri occhi più rilevante copre e nasconde tutte le altre identità di cui questa persona è portatrice e con le quali potremmo entrare in connessione. Insomma, sotto questo profilo è chiaramente un depauperamento.
Perché è così difficile emanciparsi dalle idee preconcette, dai pregiudizi e dai cliché?
Il viaggio alla scoperta dei nostri bias non finisce mai perché, tendenzialmente, amiamo ciò che è a noi simile e, dunque, nelle persone che ci somigliano tendiamo a vedere principalmente i pregi e soltanto in un secondo momento i difetti. Tomas Chamorro-Premuzic, della Columbia University, afferma che “quando i manager vengono selezionati per occupare posizioni di vertice, gli stessi aspetti che consentirebbero di predire il loro fallimento, per esempio il narcisismo o l’eccessiva fiducia in sé stessi, sono comunemente scambiati per indicatori di potenziale o di talento per la leadership e persino esaltati”.
Secondo lei le organizzazioni e i loro leader sono oggi pronti ad assecondare il salto culturale verso ambienti più attenti a includere e a valorizzare le diversità?
I leader saranno pronti nella misura in cui saranno costretti a confrontarsi con le nuove generazioni, che stanno ridiscutendo profondamente i pilastri della cultura organizzativa e si stanno rivelando indisponibili a stare negli ambienti che non sono inclusivi nei fatti.
Le nuove generazioni desiderano valorizzare la complessità di ciascun individuo, ritenendola indispensabile per innovare le organizzazioni e renderle capaci di senso.