Responsabilità, Ris-petto, Ascolto, facile proseguire con senso: sono parole che si attraggono da sole.
Senso. Parola “polisemica” = tanti sensi, tanti significati.
Parola che accoglie e mescola in sé differenti sensi.
E sensi assai differenti: non bastasse, cambia il senso pure spostando l’aggettivo prima o dopo il nome: sarebbe descrittiva la funzione dell’aggettivo messo prima (grande casa, bel libro, nuovo telefono), restrittiva quella dell’aggettivo messo dopo (casa grande, libro bello, telefono nuovo), ma come sempre c’è di più.
Parola che agisce nel corpo, nell’anima, nella mente, nel cuore.
Parola che a volte significa “ragione”, altre volte il contrario. Che basta metterle qualche lettera davanti (assenso, consenso, controsenso, dissenso), e gira in tutt’altre direzioni. In altri sensi, toh. Parola che comprende il senso del discorso e i sensi della percezione.
Parola simbolo d’inclusione.
Ma vediamo se e come può prender senso questo ragionamento sul senso della parola senso.
I sensi del corpo
Partiamo dal corpo, che in questi strani mesi è al centro dell’attenzione.
Il corpo da proteggere, da distanziare, il corpo da salvare. Il corpo, a volte, da riporre.
Abbiamo cinque sensi: vista, udito, olfatto, gusto e tatto. Sono i canali che portano al cervello le informazioni sulla realtà.
Poi c’è il sesto senso: ne parlano neurologi, filosofi, psicologi e poeti. Non solo per indicare una specie di “super-senso”, extranormale, roba da chiaroveggenti; più spesso per indicare la sensibilità, l’intuizione, l’istinto che ti fa avvertire prima delle evidenze, oggi si direbbe l’intelligenza emotiva. Qualcuno oggi lo colloca in un punto tra orecchio e cervello, il nervo vestibolare (vestibolo è appunto “entrata”), quello che va in tilt quando hai la labirintite.
E pare ci sia pure un settimo senso: telepatia, premonizioni. Lasciamo perdere.
A volte, con il corpo, li perdiamo, i sensi. Altre volte li riprendiamo, vuoi con cose che ci strofinano sotto il naso, vuoi con azioni più energiche. A volte proviamo un senso di stanchezza, di pesantezza, oppure di benessere; a volte di nausea, oppure di fame; e a volte è una fame-appetito, che plachiamo con lo snack, altre volte è una brama, un desiderio, di soldi, di potere, di sesso. A volte esplode il piacere dei sensi, altre volte ne implode la pace.
I sensi dell’anima
Sull’altro fronte c’è il trambusto delle emozioni.
Partiamo col senso di colpa. Quello personale, famigliare, amicale; quello che sfocia in rimorso.
O quello professionale, dell’imprenditore che ha portato i libri in tribunale, lasciando tante famiglie nella disperazione e mandando in fumo il lavoro dei nonni. Del medico/a o dell’infermiere/a che non riesce a guarire la persona curata. Dell’insegnante che ha desistito dal sostenere lo/a studente.
(A proposito, medico è un aggettivo: c’è il presidio medico e c’è la guardia medica; usato come sostantivo, per indicare la professione, va bene se parliamo di un maschio; quindi la donna che cura i malati è una medica, non un medico. Studente è un participio: colui/colei che studia. Mica diciamo cantantessa, partecipantessa, mittentessa. Alcune parole hanno già superato lo stereotipo del maschile per le professioni o i ruoli > sindaca, assessora, deputata. Per altre serve ancora qualche spintarella.)
Poi c’è una risma di sensi dell’anima: frustrazione, smarrimento, solitudine, vuoto. Ma c’è anche il senso di gratitudine. Si può provare un senso di gioia, oppure di tristezza. E una cosa è provare tristezza, un’altra cosa è provare un senso di tristezza: è più ovattato, meno pungente.
A volte i “sensi” sembran l’opposto del raziocinio (Regnano i sensi e la ragione è morta, Petrarca), altre volte indicano una ragione un po’ approssimativa, come nella “traduzione a senso”, non letterale, sulla versione di latino, o sulla frase del cliente in un inglese strascicato, o in un dialetto che pare un esercizio di grammelot (la lingua teatrale che nel medioevo assemblava suoni e onomatopee prive di un senso preciso, per parlare al popolo aggirando la censura del potere).
A volte è sinonimo di “sensazione”, o di “sentimento”. Altre volte di “valore”: il senso morale, il senso di giustizia, di pietà, misura, onore, amicizia. C’è il senso dell’humor, che non è la satira, né la comicità, la derisione, tanto meno il sarcasmo, ma la capacità di cogliere e far cogliere i lati meno espliciti di una situazione. C’è il buon senso. C’è il senso comune. I sensi di legge (ai sensi dell’art. xxx). Ci son le formule di ossequio: gradisca i sensi della mia devozione, con i sensi della mia più profonda stima (sempre al plurale, che vale di più).
Ci sono gli aggettivi derivati: sensato, sensitivo, sensuale.
C’è il “senso” come talento naturale: il senso estetico (e sarà un caso se qui per antonomasia scegliamo uno dei cinque, il gusto?), quello pratico, quello dell’orientamento.
C’è anche il senso inteso come “direzione”: il senso verticale, orizzontale, orario o antiorario, il senso vietato e il senso obbligato, il senso unico e il doppio senso.
E proprio il doppio senso, fondamento del comico, ci porta nel cuore del nostro tema: il senso come “significato”.
Il senso delle parole
Ma in che senso? In un certo senso… Lo dici in senso positivo o…
Eccolo, il principe dei sensi: il significato soggettivo che nella nostra vita assumono certe parole (i significanti).
Pensiamo a questi mesi.
Lavoro da casa: un tempo era un privilegio, poi è stata una costrizione. Magari abbiamo imparato a trarne il senso positivo: clienti, colleghi e fornitori sono entrati nelle nostre case, nelle nostre cucine, han conosciuto i nostri figli, i gatti, gli oggetti, i poster nelle stanze.
Positivo/negativo: oggi prevale l’accezione sanitaria, che pure è il contrario della logica; contagiare, contaminare, era bello un tempo contaminarci con persone e con culture diverse, oggi è il peggiore dei rischi. Virale: ho pubblicato un post che è diventato virale, era oggetto di vanto, oggi apriti cielo. Tamponare: era schiantarsi sul paraurti davanti, oggi t’infilano delle cose appuntite che non è tanto bello.
Senza dimenticare gli evergreen, i super-classici dei doppi sensi: il “premio” è la coppa che vinci in gara o è il prezzo della polizza? “Ovvero”: dichiara o disgiunge? sta per “cioè” o per “oppure”? “Piuttosto che”: significa “invece di” oppure smarca i punti di un elenco?
Anche senza cacciarci nel groviglio accademico che ben distingue la semiotica dalla semantica (eppure entrambe vengon dal greco sema, o semeion, cioè segno, significato, senso); e anche senza banalizzare faccende davvero complesse, possiamo ricordare lo sgomento del Poeta, dinanzi all’iscrizione sull’ingresso dell’Inferno: Queste parole di colore oscuro / vid’io scritte al sommo d’una porta; per ch’io: / «Maestro, il senso lor m’è duro».
E ancora: ha senso o fa senso? Un mio amico inglese che fatica a studiare l’italiano direbbe “fa senso”. In inglese il senso si costruisce: il sense making è la formazione di un’identità, di un significato collettivo, la narrazione comune di un’impresa, di un team sportivo, di una nazione.
In italiano invece un’idea, una proposta, ha senso, fondatezza, valore, sta in piedi. “Ci sta”, oppure no. Mentre fa senso è “fa schifo”, “disgusta”. E pure questo, con l’immancabile contro-senso, perché a volte fa senso significa “mi attizza”, “mi arrapa”, “mi fa sangue” (e magari invece mi fa proprio senso la vista del sangue).
Cogliere il senso: fosse facile
Disegno una sedia. Ti chiedo: «Che cos’è?». «Una sedia», rispondi.
«Allora ti spiace sederti?».
Lo faccio spesso, nei mei corsi. Sembra un giochino, ma aiuta a riflettere sul senso di realtà e rappresentazione.
Una cosa è la realtà (R): la casa, la macchina, l’azienda, il tempo che passa.
Un’altra cosa è la rappresentazione della realtà (RR), ossia il senso che noi le attribuiamo, il valore che quell’elemento di realtà ha per noi, la nostra percezione; che è sempre soggettiva, e può cambiare nel tempo.
Un’altra cosa ancora è la rappresentazione della rappresentazione della realtà (RRR), ossia il linguaggio che usiamo per esprimere i nostri significati.
La sedia reale > la mia idea di sedia > la parola che usiamo per definirla (sedia, chair, chaise, cadrega…).
Quando parliamo con gli altri, il nostro linguaggio rappresenta davvero il nostro “senso”? E quando è qualcun altro a parlare, cogliamo il senso del suo pensiero? Sappiamo abbassare il volume dei nostri pre-giudizi, delle emozioni, delle interpretazioni soggettive? sapremo ascoltare senza manipolare tutto con i nostri filtri culturali e valoriali? con i nostri sensi?
Le persone non fanno la guerra, o l’amore, per la realtà, ma per ciò che la realtà rappresenta per loro. La striscia di Gaza è una lingua di terra disgraziata, inquinata, povera persino di acqua, eppure da decenni soldati, terroristi e gente pacifica si rovinano la vita per lei. Un’ora, sessanta minuti, passati nelle braccia di chi amiamo, o sulla poltrona del dentista, o nella sala d’attesa di un ospedale, a roderci l’anima per uno straccio di notizia, hanno sensi molto diversi.
Usare un linguaggio inclusivo significa sforzarsi di andare oltre la propria rappresentazione della realtà, e accogliere quella di chi, magari con molta fatica e molto impegno, ci sta presentando la sua.
Le parole dei sensi
L’ultima tappa di questo ragionamento riguarda i sistemi rappresentazionali, strumento linguistico molto efficace per accordare i valori di diversità e inclusione.
Se è scontato che i 5 sensi (o 6, o 7) son le porte d’ingresso del cervello, meno scontato è che ne sono anche le porte di uscita.
Noi parliamo, scriviamo, ci esprimiamo in modo coerente a come abbiamo percepito. Possiamo essere visivi, auditivi oppure cenestesici (qui c’è l’area dell’olfatto, del gusto, del tatto + la turbolenza emotiva). Se percepiamo in prevalenza con la vista, preferiremo espressioni che evocano immagini, scenari, obiettivi, traiettorie; se privilegiamo l’ascolto, cureremo più come suonano le nostre frasi; se abbiamo più aperta la sfera cenestesica, organizzeremo il nostro linguaggio intorno alle sensazioni tattili, olfattive, gustative ed emotive.
C’entra poco la fisiologia, è un fatto neurologico. Spesso una persona ipovedente pensa e parla in modo visivo. Ho un’amica cieca che abbonda di verbi come osservare, chiarire, focalizzare, schematizzare; aggettivi come oscuro, nitido, trasparente; sostantivi come quadro, schema, prospettiva. Una volta mi chiese: «Abbiamo rivisto il contratto per prossimo anno: puoi dargli un’occhiata? ti sembra chiaro?»
È attraverso le parole dei sensi che esprimiamo agli altri le nostre idee. Conviene farne un uso ben articolato nella comunicazione con platee ampie (qui un esempio di linguaggio polisensensoriale), e usare invece quelle specifiche della persona con cui parliamo, se rispondiamo a una sua domanda/obiezione, se puntiamo a stringere una relazione con lei/lui, se vogliamo tener conto della sua posizione. Sintonizzarsi sul sistema rappresentazionale dell’altra persona ci aiuta a stringere la relazione con quella persona, a includere il suo e il nostro punto di vista in un confronto possibile, a costruire interesse, disponibilità, fiducia.
Che cosa ci insegna, dunque, la parola senso? Almeno un pizzico di consapevolezza su quanto le parole possano fare male o fare bene; quanto possano – in modo intenzionale, oppure no – escludere, oppure includere le persone.
Nell’Introduzione alla psicoanalisi, dice Sigmund Freud: «Attraverso le parole ognuno di noi può dare a qualcun altro la massima felicità oppure portarlo alla totale disperazione; attraverso le parole l’insegnante trasmette la sua conoscenza agli studenti; attraverso le parole l’oratore trascina il pubblico e ne determina giudizi e decisioni. Le parole suscitano emozioni e sono il mezzo con cui generalmente influenziamo i nostri simili».
Un altro motivo per trovare un senso a questa parola (anche se questa parola… si vabbè, Vasco).