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La scena è abbastanza nota.

Non lo fosse a tutt*, conviene vederla subito. 

(dura un minuto)

Le parole sono importanti (da Palombella rossa)

Vista?

Beh, forse partire con Nanni Moretti che piglia a schiaffi la giornalista non è l’idea più garbata per avviare un pensiero su diversità e inclusione, tanto meno per parlare della bellezza della semplicità.

Resta vero che le parole sono importanti. 

“Chi parla male pensa male“, grida Moretti in un altro passo del film. 

Ed è proprio questo il ragionamento che qui proponiamo: semplificare il linguaggio è semplificare il pensiero, è renderlo più rispettoso delle differenze.

Per questo ripartiamo, ancora una volta, dalla struttura della parola sem-plicità. 

E il trattino ci aiuta, ancora, a smontare la parola e a guardarci dentro.

Piccolo esercizio

Per cortesia, lettrice, lettore, prendi un foglio, fisicamente. O, se vuoi, col pensiero.

Piegalo in due. 

Ora in tre. E in quattro.

Visto? Il foglio sì è fatto du-plice. Tri-plice. Quadru-plice. 

E se vai avanti, a com-plicare, via via si farà molte-plice.

Ora s-piegalo: togli le pieghe. Il foglio torna sem-plice. Sine-plica, senza piega. Torna a essere piano (per indicare il linguaggio semplice, gli anglosassoni parlano proprio di plain language). 

Com-plichi, es-plichi.

Molte volte al giorno facciamo questo: ci sforziamo di rendere sem-plici cose com-plicate (e viceversa). E in questa snervante attività ci sono alcuni aspetti etici e alcuni aspetti linguistici, che comunque compongono insieme il nostro vivere quotidiano. 

Semplice o semplicistico?

Semplice, semplice. 

Semplicistico è un’altra cosa. Semplicistico è facilone, riduttivo, generico, superficiale. È la cattiva interpretazione del semplice. 

«Bisognerebbe rendere tutto il più semplice possibile, ma non troppo semplice.» 

Così Albert Einstein, uno che di complessità ne capiva.

Spesso spacciamo la nostra confusione mentale per complessità, ma solo perché non abbiamo fatto abbastanza per semplificarla. Allora ci ostiniamo a presentare il nostro pensiero come troppo prezioso per essere semplificato. 

E non siam qui a dire che tutto possa essere semplificato per tutti. Tradurre la meccanica quantistica o il dibattito sul metaverso nello stile e nei tempi di una conversazione da bar sarebbe davvero semplicistico. Ma possiamo giurare ad Einstein di aver cercato di rendere tutto il più semplice possibile, in modo che sia comprensibile, e quindi inclusivo, per la maggior parte delle persone?

Può giurare, il mio medico, se gli dico di avere un “forte dolore alla bocca dello stomaco”, che sia meglio dire «Il paziente accusa vivo dolore nella regione epigastrica»?

O che se scrive nel referto «non si apprezzano lesioni di natura traumatica a carico dei legamenti crociati», anziché compiacermene, io potrei preoccuparmene, pensando che le mie lesioni non sono considerate da lui importanti? Nel linguaggio comune apprezzare ha valore positivo, e non neutro. Scrivesse «non risultano», non sarebbe più semplice? 

Vediamo altri esempi, più da vicino. 

Cartelli

«È vietato legare ombrelli ai colli», diceva qualche anno fa l’avviso al deposito bagagli della stazione ferroviaria (spero lo abbiamo cambiato). Perché colli, e non bagagli, pacchi, valigie?

O ancora: «Per mancanza di moneta divisionale i pazienti solventi sono pregati di presentarsi allo sportello muniti della suddetta», mi è capitato di leggere, ancora di recente, in tempi di cashless, davanti alla cassa di un grande ospedale. 

Passano di lì migliaia di persone ogni giorno, e se arrivano senza spiccioli magari si sentono pure gridare: «Non sa leggere?». E non siamo al telequiz di fine giornata, dove magari abbiamo anche voglia di rilassarci con i giochi di parole: siamo lì a gestire stati d’animo pesanti.

Denunce, contratti, bugiardini

Il brigadiere è davanti alla macchina per scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata».

Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione.

«Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante.» 

Il brano è di Italo Calvino, ed è noto come L’antilingua.

Ma sarà capitato anche a noi. 

Tu dichiari quel che ti è successo, per “sporgere denuncia” (chissà perché poi “sporgere”?), e loro traducono. Migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente, con la velocità di automi, la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Molto spesso (non sempre, ma davvero molto spesso), avvocati, medici, banchieri, informatici, funzionari delle più diverse funzioni, addetti di ministeri, tecnologi vari, scrivono, parlano, pensano nell’antilingua, sbiadendo i significati veri, o relegandoli in fondo a una catena di parole inutili.

Prendiamo le leggi: per rispettarle, bisogna che i cittadini prima le comprendano. 

Prendiamo i mutui,  le polizze assicurative, i contratti standard – telefonia, internet, abbonamenti tv, energia – che il cliente non può negoziare, può solo prendere o lasciare. E tutti i testi che comunicano informazioni importanti per la nostra vita: fogli illustrativi dei farmaci (significativamente chiamati bugiardini), etichette dei surgelati, orari degli autobus, istruzioni per gli elettrodomestici. Materiali pensati e comunicati spesso in modo maldestro, confuso, chissà perché così complicato.

Chi parla l’antilingua, dice Calvino, «ha sempre paura di mostrare interesse per le cose di cui parla. Crede di dover sottintendere: io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è più in alto di ciò che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso». 

L’aritmetica e l’inclusione

Come si fa a mangiare un elefante? Chunk-by-chunk, dice il proverbio. Un boccone per volta.

Quando le cose sono complicate, per capirle, bisogna spacchettarle in cose più piccole, e risolverle una per la volta. Come le espressioni aritmetiche. Parentesi graffe, quadre, tonde. Risolvi prima le matrioske più piccole, poi sali via via, e la complessità si “s-piega”, si “s-piana”, si srotola lì davanti, fa meno paura, la puoi maneggiare. 

E mi chiedo: non sarà l’aver reso l’inclusione un concetto così astratto, così impegnativo, che la rende inutilmente e pericolosamente complicata?

Chiediamolo a un essere umano di 5 o 6 anni che cosa significa “inclusione”. O meglio, osserviamolo viverla, l’inclusione, con le amiche e gli amici di gioco, di qualunque origine, lingua, colore della pelle, orientamento religioso o sessuale (pare che sia già evidente a quell’età lì). Potremmo trarne buoni suggerimenti per vivere le diversità e l’inclusione come concetti molto più semplici – e belli, bellissimi – di come a volte ci appaiono.

Antonio Giuseppe Malafarina, giornalista, esperto di disabilità, sostiene che inclusione è una parola magica: significa prendere dei gruppi di persone diverse e metterle insieme, anche solo per qualche momento, e far sì che si percepiscano diversi e allo stesso tempo uguali. Non nel senso di appiattire o ignorare le differenze: nel senso di usarle come canali di comunicazione. Inclusione allora è una parola magica perché esiste quando la crei, e quando l’hai creata scompare. 

Se la moda fa tendenza

La magia della parola dell’inclusione, forse, davvero si sta avverando. 

L’alta moda, per esempio, da sempre rappresenta l’esclusività. Eppure all’ultima Fashion Week di Milano, lo scorso febbraio, ha ottenuto un’attenzione speciale lo stilista Marco Rambaldi, sostenuto da Valentino, che ha portato gente di ogni genere, forma, età, nella sua collezione 2022.

E per tutta la rassegna la parola d’ordine è stata fluidità: nel vestire, nel truccarsi, diremmo nel vivere. 

Evento di rilevanza limitata? Forse. Ma se la moda ha sempre avuto un ruolo importante nell’abbattere pregiudizi e nell’affermare nuove tendenze, possiamo immaginare bene. Quella magia, a un certo punto, avrà fatto quasi svanire la parola inclusione, che sarà nei fatti. Sarà divenuta un’abitudine, una prassi, un modo di essere. 

Che poi, anni prima di Rambaldi, non era stato Benetton a premere sulla diversità? Mani bianche e mani nere unite dalle manette, tre cuori uno accanto all’altro con le scritte WHITE, BLACK, YELLOW, bambini di ogni colore che giocano insieme, due giovani compagni con una bambina in braccio, preti e suore che si baciano, e poi il claim Clothes for Humans, sempre nel nome degli united colors.

Due parole

Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite. Proprio per questo, diceva un filosofo, gli dei ci hanno dato una lingua e due orecchie. Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori. 

È un maleducato, se parla in privato e da privato. È qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo. 

Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire

Lapidario il pensiero di Tullio De Mauro, gigante della linguistica italiana, nella home page di dueparole, il “mensile di facile lettura” ideato un quarto di secolo fa dall’Associazione. Che poi mensile non fu, perché non ebbe sostegno economico per vivere a lungo, ma che fu una scintilla per l’inclusione linguistica di molte fasce della popolazione italiana.

Dueparole aveva nel proprio obiettivo i “lettori dimenticati”, le persone che nessuno considera come potenziali lettori: ragazzi svantaggiati sul piano culturale, persone con dislessie o altri disturbi dell’apprendimento, persone che soffrono di qualche forma di ritardo mentale; persone straniere che hanno poca familiarità con la lingua italiana; giovani e adulti che, dopo la scuola dell’obbligo, leggono poco perché non trovano testi adeguati alle loro reali capacità cognitive; persone anziane, sole, con problemi di memoria e anche di perdita di parte delle abilità linguistiche. Tante persone che devono gestire forme varie di disabilità, e che hanno uguale diritto di accedere alle informazioni e alla comprensione di quelle informazioni.

Tra i meriti di Tullio De Mauro c’è anche il Dizionario di base, ossia la raccolta delle parole di maggior frequenza nella lingua italiana parlata. Erano circa 5mila nella prima edizione, anni ’70, oggi sono circa 15mila. Di queste, 2mila costituiscono il lessico fondamentale, ossia le parole ad altissima frequenza, usate nell’86% dei discorsi pubblici e dei testi. Ce n’è da non annoiarsi. 

Usare quelle parole, per farsi capire da tutti, è un atto di rispetto delle diversità, e quindi di inclusione.

Un altro piccolo contributo in questa direzione è il decalogo della semplicità, che contiene suggerimenti concreti (es. usare parole brevi, frasi brevi e lineari, espressioni positive, verbi all’indicativo presente…), che abituano a parlare, a scrivere, a pensare in modo piano, gentile, inclusivo. 

Una magia semplice

Quindi se parliamo, scriviamo, pensiamo in modo più semplice diventiamo più aperti, più rispettosi delle differenze? È possibile, sì.

Così pure se smettiamo di pensare in modo binario (giusto/sbagliato, corretto/scorretto, maschile/femminile, giovani/vecchi, dentro/fuori..,), e riconosciamo le tante sfumature tra due estremi, diventiamo più inclusivi.

Se tra un giusto e uno sbagliato, un sono d’accordo e un non sono d’accordo, ci alleniamo a dirci, e a dire: “aiutami a capire meglio”, diventiamo più inclusivi.

Più lo facciamo, meno ci costa farlo. Come in ogni gesto, di sport, di musica, di lavoro. Ci abituiamo, diventa naturale. Semplice, come una magia.