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Un NO pronunciato con convinzione profonda è migliore

di un SÌ detto solo per compiacere o, peggio, per evitare guai.

Gandhi

Aprire con questo pensiero di Gandhi significa delimitare il campo per questa riflessione sulla parola No, riferendola ai casi in cui vogliamo negare un contenuto, respingere un comportamento, ma continuare a proteggere la relazione. Diversa l’ipotesi in cui volessimo chiudere la relazione, magari perché vediamo  offesa la nostra identità, o colpiti in nostri valori. Ipotesi altrettanto critica, ma che meno si addice a un contesto come questo, dedicato al linguaggio inclusivo.

NO è una delle parole più potenti, e quindi più pericolose. Spesso stigmatizzata, considerata sgarbata, tesa all’escludere, anziché all’includere.

Cerchiamo in queste righe di riabilitarne il significato positivo. Parliamo infatti di NO positivo. O, meglio, di NO inclusivo. Parliamo del valore di un NO ben contestualizzato. Della responsabilità che abbiamo quando dobbiamo comunicare una cattiva notizia a una persona cara; un feedback critico a un collega, a un capo, a un cliente; un rifiuto, una bocciatura, sempre difendendo la relazione.

Perché conviene saper dire dei buoni “no”

A volte diciamo sì, quando dovremmo dire no. O diciamo dei no maldestri. Oppure evitiamo, rimandiamo.

Dire no è difficile. Si rischia di rovinare la relazione.

Una promozione da negare, un esame o un colloquio andato male, una proposta da respingere, un ordine da annullare. Una grana che prima o poi capita a tutti. Spesso cadiamo nelle formule sbrigative: «Spiacenti di comunicarle che…», «Nostro malgrado dobbiamo informarla che…», che non riducono l’impatto sul destinatario. Anzi.

Maggiore è la delicatezza del tono che usiamo, più efficace è il messaggio.

Un bell’esempio ci viene dalla cultura della diplomazia, che tanto preziosa sarebbe in questi giorni.

William Ury, docente di negoziazione ad Harvard, nel suo libro Il no positivo racconta che, al tavolo con i delegati russi e ceceni, dopo aver attaccato i russi, il vice presidente ceceno attaccò anche Ury stesso: «Tu sei americano. Guarda cosa stanno facendo gli americani a Porto Rico». La replica del negoziatore: «Apprezzo la tua critica al mio paese, che mi fa sentire fra amici con cui poter parlare sinceramente. E quello per cui siamo qui non è parlare di Porto Rico o del passato. Siamo qui per vedere se possiamo trovare un modo per fermare le sofferenze e lo spargimento di sangue in Cecenia». La conversazione tornò sull’argomento. Nessuna replica all’attacco, nessuna resistenza: sì alla relazione, no al contenuto e ancora sì alla relazione.

Un problema logico-linguistico no

Un famoso quadro di Magritte raffigura una pipa. Sotto, una scritta: «Questa non è una pipa». Dopo un attimo, capisci: è il disegno di una pipa.

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Se io ti dico «Non pensare a un elefante che vola», tu cosa vedi? Chiaro, l’elefante che vola. Esperienza di tutti: un amico ti dice «Non preoccuparti», «Non aver paura», «Non volevo farti far la figura dello stupido», e quali sono le parole che ti s’inchiodano nel cervello? Proprio quelle che lui voleva cancellare.

Ancora: ci sono persone che hanno difficoltà a fare i complimenti. Il massimo che riescono a dirti è «Uhm, non male». Che poi sarebbe «bene», o «abbastanza bene». Per dirti che quell’abito ti sta bene, dicono «Non ti sta male».

Il cervello pensa positivo. Se vogliamo generare un pensiero nella mente di chi ascolta, non incorriamo («non», vedi, pur standoci attento ci casco anch’io) nella doppia negazione, teniamo sempre presente, come presupposto logico-linguistico, la linearità del pensiero, l’impossibilità di concepire la negazione se non passando prima dall’affermazione.

Che cosa rischiamo: la trappola delle 3 A

In quali difficoltà possiamo incorrere se non ci addestriamo al No positivo? Nella cultura della negoziazione si parla della “trappola delle 3 A”. Sono 3 parole che iniziano per A.

La prima è acquiescenza: non sapendo dire no, alla fine diciamo sì. Pensiamo ai genitori, di fronte alle richieste senza tregua dei bambini (negoziatori strepitosi: determinazione e costanza sull’obiettivo). Pensiamo al venditore davanti a una richiesta di sconto, o al manager sulla pretesa di un collaboratore, o viceversa: se non sa dire di no, alla fine dice sì. E s’intrappola.

La seconda è attacco: è il NO violento. Magari fa seguito alla trappola precedente: “siccome ho ceduto troppe volte, adesso mi sente!”, ed esce un NO che esonda dal contenuto, e va sulla persona. Le guerre, i dinieghi ostili, le chiusure pregiudiziali, sono NO di questo tipo.

La terza è astensione: temporeggiare, rimandare, sfuggire, fino all’evitare. Aspetto e aspetto, nella speranza/convinzione che il problema o la richiesta svaniscano da sé, o che il richiedente si sfianchi. Scelta che può rivelarsi opportuna, a volte, sul piano tattico, ma che se diventa un comportamento abituale si rivela una trappola: le persone finiscono per disamorarsi da me, non solo dalla richiesta.

Dove mettere il “no”: i livelli logici          

Secondo il linguista Robert Dilts, il pensiero di ogni essere umano agisce su sei “livelli logici”. Ogni livello viene innescato inconsciamente da una domanda.

In una graduazione di temperatura emotiva, sotto c’è il mondo del fare. È il nostro mondo visibile, quello che mostriamo a tutti. Comprende: l’ambiente (dove e quando faccio qualcosa?), il comportamento (che cosa faccio, in concreto?), le capacità (come lo faccio?). Qui in genere siamo disponibili a discutere, magari anche a cambiare opinione, quindi più aperti ad accettare un NO.

Sopra c’è il mondo dell’essere, quello intimo, che tendiamo a proteggere, a volte a nascondere.

Qui abitano i nostri valori, le nostre convinzioni (perché faccio le cose che faccio? che cosa muove le mie azioni?), la nostra (o le nostre) identità (chi sono mentre faccio ciò che faccio?), la missione che ci siamo dati (per chi è utile ciò che faccio e sono?). È la parte più delicata, più vulnerabile. Massima cautela quando ci avviciniamo lì, interagendo con chi sta per ricevere da noi una cattiva notizia.

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E non solo con le frasi più chiaramente offensive: dire a una persona «Sei sciocco» è ben diverso da «Hai fatto una sciocchezza». Anche per dare un feedback critico a un collega. Anziché dire «Chi ha fatto questo disastro di slide!», potremmo dire: «Mario, ho chiesto a te di produrre quelle slide perché so che sai farle bene. Puoi riprendere la presentazione della settimana scorsa, che ci ha salvato la vita col cliente? Ci fai un altro miracolo?».

Super-protetto il mondo dell’essere, la negatività confinata nel fare. E addirittura senza parole negative, emersa dal confronto con un ottimo lavoro realizzato poco prima dalla stessa persona.

Un bell’esempio è raccontato ancora da Ury.

Una persona con problemi di cuore non poteva mangiare cibi conditi con olio o burro. Un problema, viaggiando molto per lavoro: frequenti i rischi di discussioni con i camerieri. Un giorno, ricevendo un piatto di pesce molto condito, respirò, chiamò il cameriere e disegnò su un tovagliolo un grafico delle sue arterie, spiegando: «Vede, questo è il mio cuore, queste le mie arterie. Una è bloccata al 100%, una all’85%, una al 65%. Se mangio questo pesce, muoio. Per cortesia, può portarmene uno senza condimenti?». Nessun tono aggressivo. Davanti a un rischio oggettivo, il cameriere si fa carico di negoziare con la cucina.

Un altro esempio è un NO che io stesso ho ricevuto, e che ho messo nel mio personale archivio degli apprendimenti. Confesso, avrei preferito ricevere un «Sì, bravi, abbiamo scelto voi», ma ho davvero apprezzato la gentilezza, l’impegno inclusivo, per proteggere la relazione (grazie Ester):

Buongiorno, grazie per la pronta risposta. E grazie per la qualità che avete messo nella vostra offerta, molto precisa, anche se un po’ fuori linea rispetto alle nostre disponibilità. Siamo inesperti: forse scopriremo a nostre spese cosa si può ottenere pagando meno. E chissà che il futuro ci riconduca a voi. Ancora grazie per il tempo e la cura.

Dove mettere il “no”: la struttura del sandwich

Confrontiamo queste due versioni dello stesso messaggio:

A

Egregio dottor Rossi,

purtroppo non possiamo accettare per ora la sua proposta per l’archivio né per la banca dati. Se in futuro avremo progetti che richiederanno la sua professionalità, la contatteremo noi.

Grazie comunque per aver pensato a noi. Le auguriamo di trovare un’occupazione che possa sfruttare al meglio il suo tempo e le sue capacità.

B

Caro Luca,
grazie per la sua offerta dettagliata. Ci ha fatto piacere conoscerla e vederla lavorare.

Quello che lei ha proposto, al momento, è fuori linea rispetto alla nostra situazione.
Il nostro archivio è semplice: difficile poter valorizzare le sue capacità. Appena svilupperemo un progetto più adatto alle sue doti, ci rivolgeremo a lei.

Stesso concetto, cambia l’impatto su Luca. Il testo di sinistra gli sbatte il NO sul muso. Quello di destra lo rispetta, pur dicendo no. Solo cambiando la struttura: usando il sandwich.

Dove sta la parte più importante in un sandwich? In mezzo. Ma è la qualità del pane che determina la percezione complessiva. Le papille gustative sono sopra e sotto: per arrivare al contenuto tocca passare da lì. È questa la struttura ideale per il No inclusivo. Il sopra e il sotto proteggono la relazione, la negatività nel mezzo.

Questo modello è chiamato anche 3 K Structure. 3 K per Kiss-Kick-Kiss. Baci sopra e sotto, e il calcio nel mezzo. Abbiamo visto poco sopra il caso di un capo che dà un feedback negativo a un collaboratore. Pensiamo a un allenatore con un atleta.

Francesca, ammiro l’impegno che dedichi a questo sport e al tuo cavallo. Ho notato che dopo la caduta c’è stata una piccola perdita di fiducia nel vostro binomio, per questo ritengo sia meglio rimandare l’uscita in concorso. Stai lavorando molto bene, e sono certa che presto ritroverete il feeling per affrontare la gara con serenità.

O un insegnante con uno studente.

Vedo che ti sei impegnato, che hai fatto di tutto per raggiungere il risultato. Siccome la performance è meno soddisfacente di quanto ti aspettavi, vuoi ridare l’esame? Possiamo vedere insieme come rinforzare alcune parti.

Oppure invertiamo il senso: pensiamo a situazioni in cui la parte più debole della relazione – debole in termini di conoscenza, o di potere, o di ruolo – deve dire un no alla parte più forte: un fornitore a un cliente, o un collaboratore al capo.

Buongiorno Sara, Sabrina mi ha detto che martedì avresti bisogno di me per uno straordinario, e mi rendo conto del periodo che stiamo attraversando. Il fatto è che ho appena parlato con mia moglie e martedì alle 18 abbiamo una visita per la bambina, che proprio non vorrei rimandare. Però ho parlato con Gianni che si è reso disponibile, così il turno resta coperto. Spero di averti avvisato in tempo.

Offrire alternative

Se è importante il bacio iniziale, che può attutire l’impatto negativo (attenzione che non suoni come una presa in giro: se devo licenziarti, e parto dicendo «Ah grazie per il tempo che hai lavorato con noi», non è che proteggo la relazione), altrettanto importante è il bacio finale, può proporre un’alternativa, un piano B, o una lettura diversa della situazione. Nel gergo negoziale, sono le B.A.T.N.A.: Best Alternatives To The Negotiating Agreement.

Un cliente mi chiede via mail una data per un corso, poniamo il 10 settembre. L’avessi disponibile, gli risponderei subito «Certo, volentieri». Altrimenti, ecco il sandwich:

Grazie Giovanni che mi richiami, mi dimostra che i ragazzi si sono trovati bene. Il 10 settembre dovrei essere a Udine. Ti va bene se vengo il 9 o il 12 o il 15? Oppure chiedo al mio collega Paolo se ha libero il 10. Oppure il 10 facciamo un’ora via web, poi ti mando letture ed esercizi, e il corso va a fine ottobre.

Dunque, se vuoi proprio me, cambiamo data. Se vuoi proprio la data, e ti fidi di me, ti fidi anche del mio collega. Oppure cambiamo la formula. In genere, una di queste alternative va in porto.

In ogni caso, ho evitato di dirgli «No, il 10 non posso». Ho salvato la relazione, soddisfatto il bisogno, anche se in un modo diverso.

Ecco: il No inclusivo è un sì a condizioni diverse, sostenibili per entrambe le parti.

P.S. Alcuni esempi riportati in questo articolo sono dalla vita d’aula, dovuti alla testimonianza o alla creatività dei miei studenti. A loro va la mia riconoscenza per quello che, fingendo d’imparare, ogni giorno m’insegnano.