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Il linguaggio opera interamente nell’ambiguità, 

e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.

Jacques Lacan

Ce n’è voluto a scegliere la citazione per aprire questo pensiero su “ambiguità”. 

Ce n’erano un sacco. 

  • L’intolleranza all’ambiguità è il segno di una personalità autoritaria, Theodor Adorno
  • Gli uomini sono moralmente ambivalenti: l’ambivalenza è al cuore della scena primaria del confronto umano, Zygmunt Bauman
  • L’opera d’arte è un messaggio ambiguo, una pluralità di significati che convivono in un solo significante, Umberto Eco
  • La nevrosi è l’incapacità di tollerare l’ambiguità, Sigmund Freud
  • La polivalenza di significati favorisce la discussione, Giorgio Gaber

E neanche si può parlare di scelta, visto che alla fine ne ho messe lì un po’. 

Comportamento ambiguo, ecco.

Che poi, chissà cosa c’è di così male nell’ambiguità. 

Parole ambigue 

Alcune parole contengono significati ambigui, persino contraddittori, e la nostra esigenza è smarcarne il senso. Prendi “ospite”: è sia chi ospita, sia chi è ospitato. Ma in genere pensiamo l’ospite come la persona ospitata dall’ospitante (qui i participi aiutano: al presente è chi compie l’azione, al passato è chi la riceve). 

Prendi “bandire”: è sia affermare, sia scacciare. Se dico “XYZ vuole bandire gli ideali del comunismo”, sarà ben diverso se XYZ è Fidel Castro o è Berlusconi. 

Prendi “manipolazione”: è buona, se la fa il fisioterapista, o lo psicoterapeuta, o il bimbo sulla plastilina. Trasformazione creativa e benefica. Ma, chissà perché, prevale il significato di raggiro, di subdola sopraffazione. Ti manipolo per approfittarmi della tua dabbenaggine, per trarne un vantaggio a tuo danno.

Stesso destino per la parola “ambiguità”. Guardiamola dentro.

Dal latino ambigere: dubitare, essere discorde. Composto da amb, intorno, da due o più parti, e àgere, condurre. Che può prendersi in due o più sensi, quindi non chiaro, che genera dubbio (anche dubbio, poi, viene proprio da duo, due). Abbinato all’essere umano, evoca diffidenza.

La fissa delle “etichette”

Invece gli esseri umani han la tendenza a categorizzare. Gran passione per la nomenclatura. Bisogna dare un ordine, una definizione, un senso. Etichette su etichette, come gli scaffali del supermercato. Pare impossibile vivere senza classificare. 

E un po’ lo è: per capirci, almeno su alcune cose, siamo obbligati a essere precisi. Difficile gestire qualcosa che non si conosce. Si ha paura di sbagliare. Magari anche paura di essere diversi? L’ambiguità spaventa perché non definisce. Lascia l’incompiuto, come il finale aperto in un film: esci con un senso di “e quindi? che voleva dirmi? bah”. Aspettiamo un seguito. O immaginiamo. Dobbiamo completare, riempire i buchi. Quasi un’ossessione. 

Magari basterebbe accettare che non tutti i buchi si riempiano. O che si possano riempire di sostanze, di colori, di sapori diversi. Anche mischiati tra loro. Anche nuovi, sconosciuti, ambigui.

Serendipity: che gioia!

La tendenza di noi umani è proseguire sulla strada battuta, seguendo la mappa, o il gregge. Non girare attorno. Niente tortuosità o inutili sentieri alternativi. Che invece potrebbero riservare sorprese, far conoscere la vita più a fondo. 

«Chissà cos’avrebbe scoperto Colombo se l’America non gli avesse sbarrato la strada», disse lo scrittore Jonathan Swift (quello de I viaggi di Gulliver, eh). Anche senza cercar le Indie, sarà capitato a molti di dover cambiare una strada, interrotta o trafficata, e scoprire un borgo, un museo, un ristorante. È il senso della serendipità, quella capacità o fortuna di fare inattese e felici scoperte, mentre si sta cercando altro (qualche esempio: viagra, raggi X, gravità, penicillina, insulina, principio di Archimede, fotografia, pacemaker, dinamite, corrente alternata, radioattività, pap test, microonde, Big Bang, polietilene, saccarina, vaccino, polvere da sparo).

Insomma a procedere sempre dritto c’è il rischio di vivere col paraocchi. A volte tocca mettere in dubbio, esplorare. Senza coordinate precise, includendo l’ambiguità tra i valori positivi della vita.

Ambiguità = fregatura? 

E invece tendiamo a credere che dietro l’ambiguità ci sia una fregatura (a volte, è così). Vogliamo sapere prima, accertare, chiarire. Anche il giro di parole – chiamato ambage, riecco l’etimo di ambiguità – ci spaventa, ci disorienta. Certo, non staremo qui, dopo aver difeso la semplicità, a tesser gli elogi dei bizantinismi, delle involuzioni di cui è pieno il lessico della burocrazia, della politica, della medicina, dell’informatica, della finanza. 

Ma non per questo dovremo dividere il mondo in cose semplici, cioè buone, e cose complesse, multiple, ambigue, cioè cattive. La mappa è utile, ma diventa un problema se ci porta a non accettare più di perderci: a volte proprio il perderci serve poi a ritrovarci.

Il mondo non è sempre binario: o bianco, o nero. C’è una sterminata gamma di grigi: ben 256 toni differenti, dicono i grafici. Quanta ricchezza, lì dentro. 

Pensiamo alle varie esperienze di fusion nelle applicazioni dell’ingegno umano: dalla musica alla cucina, dalla pittura allo sport. Elvis Presley incontrò subito il favore del pubblico, quando fuse ritmi e movenze black con il blues e il country popolare, prima di diventare il re del rock & roll? Quanto ci ha messo il calcetto a emanciparsi (sempre che ci sia riuscito) dalla percezione di “vorrei ma non posso” del calcio? Con quale pregiudiziale retrogusto assaggiamo, pur dopo decenni di convivenza, la Margherita sfornata dal pizzaiolo cinese? L’elenco potrebbe continuare. Quando siamo di fronte a una realtà che ha contorni non precisi e univoci, storciamo il naso. 

La sicurezza spegne l’enorme potenziale dell’indefinito. Dove c’è il rischio dell’ignoto, certo, ma anche l’opportunità di nuove dimensioni. 

Il linguaggio della precisione e il linguaggio della vaghezza

«Cosa intendi, esattamente, quando dici Xyz?»

Ci rivolgono spesso domande come questa. O le rivolgiamo noi a qualcuno. E non solo su parole astruse. Anche su parole comuni, che però richiedono un’indagine. A volte ci serve scavare, disambiguare, precisare.

Utilissime, in questo, le domande: possiamo migliorare qualità e quantità delle informazioni, recuperando ciò che manca del pensiero dell’interlocutore. 

  • Sono spaventato  da cosa sei spaventato?
  • Nessuno ascolta ciò che dico chi non ascolta? che cosa dici, precisamente? 
  • Rimpiango la mia decisione la tua decisione è un evento finito o è in corso? 
  • Tutti sostengono che questa non è una buona idea.  chi, di preciso, sostiene che non è una buona idea? In quale parte non sembra una buona idea? Secondo quali criteri?

Questo metodo delle domande d’indagine, in linguistica, è chiamato metamodello: porta infatti “oltre il modello” proposto dall’interlocutore. Ne sono esperti investigatori, magistrati inquirenti, medici in fase di anamnesi, fidanzati sospettosi, madri e padri con i figli.

Il lato opposto della moneta è il Milton Model, chiamato così dal nome del suo ispiratore, lo psichiatra Milton Erickson. È comunicazione vaga, emozionale, non informativa: l’interlocutore interpreta il messaggio attraverso la propria esperienza. Usa un linguaggio persuasivo, perché fatto di truismi (inglese true, vero), verità che sarebbe superfluo o ridicolo spiegare, affermazioni così generiche da incontrare ogni soggettività. E quasi ipnotico, perché guida l’interlocutore con la forza del coinvolgimento inconscio: si parte confermando qualcosa che l’altra persona già ritiene vero, poi si mostrano altre possibilità e poi gliele si fa accettare. 

Niente di diabolico, eh. È la nostra quotidiana esposizioni ai messaggi pubblicitari.

  • Moltissime persone hanno sperimentato il nostro prodotto con risultati eccellenti.
  • Qualcuno reputa assurdi gli interventi di chirurgia estetica, ma i giudizi favorevoli sono la maggioranza.
  • Quando tornerete dalla crociera nel Mediterraneo, la vostra vita non sarà più la stessa.

Confrontiamo. Siamo davanti alla vetrina di un’agenzia immobiliare. L’occhio cade su un cartello. Diverse foto, e un testo che dice:

Vendesi appartamento di 150 mq, secondo piano, 4 locali, 2 servizi, terrazzo con veranda, doppio ingresso, pavimento in marmo, infissi in legno di rovere, riscaldamento a pannelli, box, cantina, solaio, esposizione a sud.

Comunicazione informativa, razionale, fornisce dettagli. Mi andrebbe a pennello, non fosse per quel riscaldamento a pannelli che non sopporto. 

Altra agenzia, altra vetrina, altro cartello. Stesse foto descrittive, e un testo stringato: 

La casa come la vuoi tu.

Linguaggio generico, onnivalente. Giusto per incuriosire il potenziale cliente? Qualcosa di più: attira la sua attenzione, genera interesse, fa nascere desiderio e muove all’azione. Proietterò sul cartello la mia idea di casa, e questo mi spingerà a fare il primo passo: che sia già un impegno per l’acquisto, o solo una richiesta d’informazioni, sarà una scelta. 

Ambiguità, vaghezza, dunque, non come contrario, ma come complemento della precisione. 

L’illusione della certezza: chi definisce la normalità?

Quanto è illusoria la nostra certezza? Non sarà solo un modo per rasserenarci? Chi definisce la normalità?

Ripensiamo ancora un attimo alla grammatica. Al dibattito sull’asterisco o sullo schwa. Soluzioni sulla carta più inclusive rispetto al plurale maschile usato come “non marcato”. Quello che ci ha sempre fatto dire che «Chiara e Mario sono simpatici».

Piaccia o no, la lingua italiana è gender marked: a differenza di altre lingue, che hanno il neutro o forme ambivalenti, per noi i nomi, gli aggettivi, le persone dei verbi, sono o maschili o femminili. E per consuetudine – non per legge divina! – il plurale misto diventa maschile. 

Mi tengo lontano da questo dibattito (pur ricordando la dura posizione presa dall’Accademia della Crusca contro lo schwa e l’asterisco). Ma sappiamo che gli studi propongono anche altre soluzioni. Mario e Giovanni sono simpatici, ovvio. Anche Chiara e Mario sono simpatici, ma Mario e Chiara possono essere simpatiche, se per scegliere il genere dell’aggettivo consideriamo il sostantivo più vicino. E Stefania, Chiara e Mario possono essere simpatiche, se facciamo valere la maggioranza.

Insomma anche la grammatica, come tutte le faccende umane, è un processo in evoluzione. Già nel 1986 la linguista Alma Sabatini diffondeva tramite il Dipartimento della Funzione Pubblica le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. E il fatto che queste siano state accolte, ai tempi, da una raffica di sghignazzi («Oh ma adesso non si può più aprire bocca!»), e che ancora oggi, dopo più di 35 anni, se andiamo in banca, in posta, o in ospedale, sul modulo siamo sempre “il sottoscritto”, “il cliente”, “il paziente”, sono solo alcuni segnali della strada da fare.

Nomen Omen? Pregi e debolezze delle nominalizzazioni

Quando il poeta latino Plauto coniò l’espressione nomen atque omen, ossia “nome e presagio”, forse non immaginava che sarebbe stata poi impiegata in modo ironico per collegare il nome di una persona a certi suoi tratti personali o sociali (es. il dietologo Grassi, l’oculista Guerci). 

Ma se dell’onomanzia, la pratica divinatoria che dal nome di una persona ne stabiliva il destino, recuperiamo l’intuizione o la suggestione evocativa, qualcosa possiamo imparare.

Per esempio, se dico «è un milanese», per dire che è un po’ spocchioso, o «fai meno il terrone», per scherzare su gelosia, attaccamento alle tradizioni ecc., dico una mezza sciocchezza, ma poi la stempero con un sorriso. Se invece comincio a etichettare una caratteristica della persona – una patologia, una scelta ideale, un orientamento religioso o politico o sessuale o sportivo – la stigmatizzo. Ne abbiam parlato a proposito di rispetto: i maschi, le femmine, le bionde, gli omosessuali ecc. 

Intendiamoci, la categorizzazione nominale ha i suoi lati positivi. Quando volgiamo un verbo in un nome, per esempio, affidando a un sostantivo (parola statica) un significato che potrebbe essere espresso con più energia da un verbo (parola dinamica), otteniamo un tono più gentile: dal crudo «Hai sbagliato» a «Vediamo quale sbaglio è stato commesso», addirittura con la forma passiva che nasconde l’attore, o «di quale sbaglio si tratta», impersonale, più delicato. 

Sul lato opposto, la vaghezza, che a volte protegge e include le relazioni, altre volte le indebolisce, facendo scomparire molte informazioni su chi compie l’azione e su chi la subisce. «Si è presa una decisione», «È stata avviata una costruzione», «È una dimostrazione di sfiducia», «È una questione di rispetto». Frasi che annebbiamo i significati: qui l’ambiguità fa correre dei rischi.

Rispondere alle domande: sempre?

Croci e delizie dell’ambiguità emergono spesso anche nelle conversazioni. Brutto, per esempio, ricevere domande e non rispondere. Meglio qualcosa tipo «non lo so, verifico, domani ti rispondo». Ma quanto è difficile, e importante, saper dire «non lo so»?. 

Poi, quando arriva il momento, il dubbio è: rispondere a tutto, e per forza in modo esaustivo? 

Non sono sicuro che l’esaustività (sempre che possa esistere) sia un valore. Per chi ha responsabilità di leadership, per esempio, a scuola, in università, in azienda, meglio dare una risposta che non sia ultimativa, che lasci spazio ad approfondimenti, generi nuova conoscenza, coinvolga altre competenze, come a dire: “Non ho un’opinione completa e definitiva”. 

Uno dei freni alle domande dal pubblico, per esempio, durante una conferenza, è la spocchia dello speaker che ostenta, snocciola numeri, ha già tutte le risposte. A volte proprio un «Sai che non lo so», magari seguito da un «tu che ne pensi?», genera curiosità. Apre, accoglie, include.

Dosare precisione e vaghezza nei brief

Perfino a volte dare indicazioni un po’ generiche, perfino un po’ confuse e ambigue, può essere utile a chi è leader: per far crescere la squadra, può assegnare un progetto non troppo definito. Anche l’idea della chiarezza e della limpida condivisione dell’obiettivo credo sia sopravvalutata. 

Se guido una squadra, non è sempre utile essere disponibile a risolvere ogni problema che si manifesta; accettare la possibilità che i collaboratori vengano da me in crisi, ci pensino, si/mi facciano delle domande; che non sappiano bene da dove partire, o come partire, e che facciano anche fatica a chiedermi. Se do un brief preciso, me lo realizzano come volevo. Ok. Speravo ci fosse dell’altro, una scoperta. “Quello che mi dici tu ora, io non lo sapevo. Imparo da te”. 

Ci sono molte idee in giro: bisogna imparare a raccoglierle. 

Ambiguo non è per forza insincero. L’ambiguità può generare un dubbio sano, un desiderio di nuova conoscenza. A volte proprio per ottenere informazioni profonde conviene essere un po’ vaghi, e poi ascoltare più in profondità. 

Let it be

Insomma conviene accettare di non vedere tutto bianco o tutto nero: ci sono molti colori in mezzo. Non è solo dolce o salato, giusto o sbagliato. L’ambiguità è quella linea più o meno sottile che unisce i due estremi. E tutti noi ci muoviamo lì sopra, come acrobati, cercando di tenere l’equilibrio. 

Let it be, suggerivano i Beatles. Conviene far pace con l’ambiguo. Inutile polarizzare. Non avremo sempre risposte, ma avremo imparato dalle domande. Le incertezze ci insegnano a pensare.