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Chi di noi sopporta più di sentirsi fuori misura davanti allo specchio di un camerino? Chi più tollera quella dolorosa sensazione di inadeguatezza al crescere del peso e delle forme? E, soprattutto, chi più soffre e tace quando dai social piovono insulti che per prenderci di mira l’anima ci colpiscono sui difetti del corpo? Brutta! Ciccione! Tardona! Sei vestito da schifo! Sei un errore della natura! 

Per capire come ci vediamo allo specchio e se, guardandoci, ci vogliamo un po’ più bene, per misurare quanto positivamente giudichiamo il nuovo corso body positive intrapreso dai brand e dai media e se la rete resta il detonatore del bullismo di genere più in voga, ovvero il body shaming, abbiamo realizzato con The Fool un Osservatorio dedicato alle tematiche di Diversity&Inclusion. Questa release è dedicata al Body Shaming e Body Positivity, le due opposte metà della mela, l’una capace di indurre vergogna per il proprio corpo; l’altra, al contrario, di generare per quel medesimo corpo l’amore, l’empatia, il rispetto che merita, in qualunque modo sia fatto e sempre.

Cresce la body positivity

Diciamo subito che a scorrere l’indagine (svolta da Global Web Index su un campione rappresentativo degli/delle utenti on line di 1000 individui tra i 16 e i 65 anni) spunta fuori chiaro che sono le donne, più degli uomini, a desiderare di migliorare il proprio corpo: si tratta del 40% delle femmine rispetto al 34% dei maschi, perché sono gli uomini (35%) più delle donne (28%) a ritenersi soddisfatti del proprio aspetto. E tutti gli altri? E tutte le altre, soprattutto? Stando alla ricerca sono, infatti, le donne a sentire di più il confronto sull’aspetto fisico. Nulla di inedito, purtroppo, fino a qui. Se non che sta germogliando un’attitudine nuova, prevalentemente femminile: la consapevolezza del valore del proprio corpo. Il 15% delle donne ha, infatti, detto a chi le intervistava “Sono diventata più body positive nel tempo”, e lo stesso ha fatto il 10% degli uomini. Emerge, insomma, un discreto gruppo che sembra guardarsi con più indulgenza e complicità, forse persino con più orgoglio, probabilmente perché ha superato il modello di bellezza che è stato in voga per diversi decenni, quello disegnato sulla perfezione e la giovinezza, misurato su un’estetica filiforme per lei, scattante e muscolosa per lui, comunque appiattito su una taglia quasi unica. Un modello stereotipato, insomma, su canoni artificiali, che non includono per nulla i corpi veri e naturali. 

Il ruolo di pubblicità e brand

Perché poi pubblicità e brand non smettono di irradiare le immagini irrealistiche di corpi e volti perfetti e, anche quando fanno scelte estetiche più inclusive, non sempre vengono credute dai consumatori, inclini a pensare che siano più che altro azioni di facciata. Secondo la ricerca, infatti, per il 42% i brand non rappresentano in maniera realistica il corpo femminile e per il 38% quello maschile. Appena il 34% ritiene che il mondo della moda sia inclusivo sul piano delle taglie e il 28% che gli sforzi fatti dalle aziende per incentivare la body positivity siano autentici, mentre solo il 24% si sente rappresentato nelle pubblicità di abbigliamento. Così, se gli italiani e le italiane vorrebbero che i brand proponessero taglie più inclusive (quello che è adatto a me deve essere sempre presente sullo scaffale e non costringermi a rinunciare all’acquisto facendomi sentire inadatto/a), si aspetterebbero che anche la pubblicità presentasse una tipologia più varia di corpi. Allo stesso tempo, desiderano genuinità dei modelli e delle immagini, ovvero che le foto utilizzate non siano modificate o che vengano meno “filtrate” nella comunicazione sui social. Perché questa estetica rigida, prescrittiva e a senso unico punge l’autostima e ferisce l’equilibrio: le persone intervistate dicono chiaramente che un maggiore pluralismo aiuterebbe a sentirsi meno giudicate. 

“Si chiama bodyshaming, denigrazione del corpo, ma in realtà serve ad annichilire lo spirito”

Il nodo dolente è appunto questo: il giudizio. Non c’è dimensione più colpita del corpo, specie quello delle donne, dal giudizio di chi vuole infierire. “Si chiama bodyshaming, denigrazione del corpo, ma in realtà serve ad annichilire lo spirito”, ha scritto qualche tempo fa su Facebook la scrittrice Michela Murgia, che è finita frequentemente sotto l’attacco di assalti feroci. E ha spiegato: “Continuamente sottoposto a giudizio, il corpo è usato come rappresentazione e incarnazione di valore (o disvalore) collettivo ed è il bersaglio primo di ogni attacco alle donne dissenzienti”.

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La ricerca ha, perciò, indagato anche il body shaming in rete, scoprendo che è un tema piuttosto divisivo. Con una media di 1000-1300 conversazioni a settimana, tocca picchi fino a 6000 appena un personaggio pubblico si espone. Episodio fortissimo fotografato nella ricerca è quello di cui è stata protagonista Emma Marrone al Festival di Sanremo, giudicata da Davide Maggio per come era vestita. Ne è seguito un tumultuoso dialogo ping-pong tra la cantante e l’esperto di televisione che ha generato un’escalation sui social che è poi approdata ai Tg nazionali (peraltro, il tema dell’inclusività è stato centrale nel buzz on line che ha riguardato questa edizione del festival). Cruciale è stata la risposta data dalla cantante, propagatrice di commenti e reazioni: “Le persone si dimenticano che le parole hanno un peso specifico. Il vostro corpo è perfetto così com’è, dovete amarlo, rispettarlo e soprattutto vestirvi come vi pare! Mi raccomando ragazze, siate orgogliose del vostro corpo e mostratelo per quello che è”.   

Nota Metodologica:
Indagine di Web Listening condotta con Brandwatch Consumer Research. Fonti: News, Blogs, Forum, Reddit, Facebook, Instagram e Twitter. Timeframe: 01 Giugno 2021 – 31 Maggio 2022.
Indagine campionaria condotta con Global Web Index su un campione rappresentativo degli utenti internet italiani di 1.000 individui (16-65 anni). Periodo di indagine: Ottobre-Dicembre 2021