Si può, siamo liberi come l’aria, si può
Si può, siamo noi che facciam la storia, si può
Si può, io mi vesto come mi pare
Si può, sono libero di creare
Si può, son padrone del mio destino
Si può, ho già il nuovo telefonino
Si può, far la guerra per scopi giusti
Si può, siamo autentici pacifisti
Giorgio Gaber, Si può (da Libertà obbligatoria)
Chissà, o tu che leggi queste righe (apprezzerai l’impegno inclusivo nello star fuori sia dai “cara lettrice/caro lettore” o “cari lettori” sia lo strazio di schwa, asterisco e simili), chissà se leggendo il titolo e poi le prime righe della canzone di Gaber hai avuto almeno un piccolo inciampo, un dubbio linguistico: “potere” sostantivo o verbo?
Perché se seguiamo la definizione di Treccani > sostantivo
capacità, possibilità oggettiva di agire, di fare qualcosa… Capacità di influire sul comportamento altrui, di influenzarne le opinioni, le decisioni, le azioni, i pensieri… Dominio, balìa, possesso… Nel diritto, qualunque facoltà di compiere azioni giuridicamente rilevanti, sia come manifestazione immediata della personalità, e quindi della capacità giuridica, di un soggetto…
ci riferiamo all’azione più o meno violenta di una forza sopra una debolezza: il potere potere politico, quello economico, quello militare, quello familiare della patria potestas.
Se poi ci smarchiamo dall’ambiguità prodotta insieme dal suono e dal significato, e viriamo sulla forma pienamente nominale, abbiamo la “potenza”, che in una lingua vicina alla nostra, il francese, addirittura individua la forca, sì, proprio lo strumento per l’impiccagione. Sarà che i nostri cugini, imbevuti di liberté e di egalité, son così insofferenti all’autorità precostituita da identificarla con la sua faccia più feroce.
Se invece seguiamo la definizione di Treccani > verbo
avere la possibilità, la capacità, la libertà, oppure i mezzi per fare qualcosa
percepiamo subito qualcosa di diverso: un’apertura, una disponibilità, un essere liberi di fare ciò che abbiamo in animo.
Treccani propone prima la definizione del sostantivo, poi quella del verbo. Altri dizionari – De Mauro, Paravia; Grande Dizionario Italiano dell’Uso, Utet; DIR, Dizionario italiano ragionato, G. D’Anna-Sintesi – scelgono il contrario: prima il verbo e poi la sua trasformazione in sostantivo.
E non pare un dettaglio da poco, sia in senso generale, per una riflessione sempre benefica sull’influenza delle parole sul nostro agire, sia con un riferimento più specifico al linguaggio inclusivo, che è il focus di queste pagine.
La mia posizione, e il consiglio che ne consegue, è per il focus sul verbo: provo a raccontare perché.
Se intendiamo “potere” come sostantivo
Possiamo anche evitare le fosche tinte di dominio, di autorità, di sopraffazione (ma mettilo un attimo al plurale, che paura! diventan subito i poteri forti).
Possiamo anche viverlo in positivo, il potere, nel senso di possibilità, di opportunità di affermazione, libertà di pensare, di scegliere e di agire, pur sempre nel rispetto di sé e degli altri.
Ma se gli mettiamo accanto il complemento di specificazione “delle donne”, il quadro si raggela.
Fan paura i numeri presentati in un recente articolo di Daniela Hamaui su Repubblica (precedente alle ultime elezioni),dal titolo Il potere delle donne.
Al Parlamento europeo siede il 39,3% di donne. In Europa le ministre sono il 30%, le premier il 14,3% e dal 2019 la Commissione europea e la Banca Centrale Europea sono in mano a Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Qualcosa si muove, ma nel mondo sono solo venti i capi di Stato donne. Magro bottino. Ancora più magro in Italia dove le cariche di Premier e Presidente della Repubblica sono da sempre saldamente in mano agli uomini e il numero di ministre dell’attuale governo si ferma a otto su ventitré. Le nostre percentuali, in verità, non sono entusiasmanti neppure nelle aziende dove, secondo il Gender Diversity Index 2021 presentato dall’European Women On Boards, le donne che ricoprono ruoli dirigenziali sono il 17% e le Ceo il 3% (la media europea è del 7%). Numeri al ribasso anche tra le italiane che lavorano: sono il 53,2% contro il 78% delle svedesi e il 70,2 delle francesi.
Non è un paese per donne, vien da commentare. Troppo facile? Forse.
Ma se stiamo sul sostantivo, il potere, appunto, stiamo sulla sostanza. E la sostanza è proprio quella. Quello è il significato odierno di “potere”, almeno quel significato, quello che vediamo messo in pratica ogni giorno nella politica, nell’economia, nelle professioni, nei media, per fortuna non nella scuola, ma non è certo abbastanza per cambiare.
E non sembra un caso, allora, se anche una buona parte della cultura femminista predica da anni l’incompatibilità tra donne e potere, almeno finché per “potere” s’intende una cultura vetero-maschilista che ha poco a che fare con l’emancipazione, l’uguaglianza di trattamento e di carriere, il rispetto per ogni genere, e tutte quelle belle cose che possiamo scrivere neii purpose delle imprese, ma poi non ci rompete troppo le scatole con ’ste robe che di certo non alzano il fatturato né portano voti.
È vero che qualcosa sta cambiando.
1) Il Gender Diversity Index citato da Hamaui, per esempio, ci dice che in Europa le aziende guidate da una donna hanno il doppio delle donne in posizione apicale (38%) rispetto alla media (19%).
2) Una ricerca pubblicata sulla Harvard Business Review mostra che le donne in posizioni di vertice sono valutate superiori agli uomini in diverse abilità di leadership, come prendere l’iniziativa, esprimere e sviluppare resilienza, portare risultati, ispirare e motivare i colleghi, risolvere problemi e guidare il cambiamento, rispettare integrità e onestà.
3) Si afffermano nuovi modelli di leadership femminile: oltre alle due già citate super leader, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, c’è la premier finlandese Sanna Marin e quella estone Kaja Kallas, anche se ancora faticano a sottrarsi alle chiacchiere del mondo sui loro outfit o sui loro comportamenti extra-professionali. Persino la britannica Liz Truss, protagonista di un’inquietante staffetta nel cuore degli inglesi con l’amatissima regina, ha dovuto districarsi tra i paragoni con la sua antesignana Margareth Thatcher, la Lady di ferro (sembrano molto adatte alle leader le metafore metalliche > chissà come se la passa ora la cancelliera coi nervi d’acciaio).
4) Da qualche mese una donna guida il governo italiano, e per fortuna si è spenta la soporifera discussione su dubbi come “Va bene perché è una donna o perché sa guidare un governo?”, o “Farà bene alle donne avere al vertice una donna che pensa come un uomo?” e simili.
Ma è anche vero che ogni sostantivo fa quello che è nato per fare: so-sta. Sta fermo. Esprime ciò che sta sotto, ciò che è ancorato alla radice di un significato. Punta alla conservazione, non al cambiamento. Anche il potere, quindi, tende a proteggere e replicare se stesso. Confrontiamo la parola “cambiamento” con “cambiare”, l’espressione “prendere una decisione” con “decidere”, o “compiere una scelta” con “scegliere”. Il sostantivo è conservativo, il verbo è dinamico.
Da nome a verbo: da dominio a libertà. La forza del verbo modale
Se invece intendiamo “potere” come verbo, per di più modale, si apre un universo di libertà.
Ripasso-flash dei verbi che la grammatica chiama servili o modali: volere, dovere e potere.
Accompagnano, servono, un altro verbo all’infinito e gli aggiungono un modo particolare, una sfumatura di significato (volontà/intenzione, obbligo/necessità, possibilità/permesso).
– Vorrei andare al mare > esprimo un’intenzione o un desiderio
– Dobbiamo consegnare i documenti entro domani > sottolineo l’obbligo/necessità
– Posso prendere in carico quel progetto? > chiedo il permesso
In neuro-linguistica, con un termine desunto dalla logica, sono chiamati “operatori modali” perché non soltanto indicano il modo dell’azione, ma soprattutto influenzano il modo di pensarla quell’azione, il modo in cui il nostro cervello opera.
Ha implicazioni molto diverse dire che il tale fa/non fa qualcosa, oppure che vuole/non vuole fare qualcosa, o che deve/non deve fare qualcosa.
– Voglio cambiare lavoro / Vorrei cambiare lavoro
– Devo cambiare lavoro / Non posso cambiare lavoro
– Voglio passare più tempo con la mia famiglia
– Non devo farmi coinvolgere troppo a fondo
– Posso finalmente dedicarmi più a me stesso
– Non devi sopportare le sue prepotenze
– Non devi perdere questa occasione
– Vuoi darmi una mano?
– Potresti prenderti in carico una parte del lavoro?
Il verbo potere, usato in certe frasi al posto dei suoi compagni di funzione logica,
– Devi farcela / Puoi farcela
– Dovresti cambiare / Potresti cambiare
– Dobbiamo imparare / Possiamo imparare
– Vogliamo fidarci / Possiamo fidarci
– Voglio crescere / Posso crescere
– Volete decidervi…? / Potreste decidervi a…
esprime la libertà, la possibilità di compiere una certa azione, ma anche l’essere in grado di compierla quell’azione, l’esserne capaci, il sentirsene all’altezza. Enfatizzando le conoscenze e le abilità personali, sa motivare con più energia, perché induce a concentrare l’attenzione non sulle condizioni della riuscita, ma già sulle modalità in cui quell’azione può essere compiuta. Non il se (ipotetico, dubitativo) si può fare quella cosa, ma il quando-dove-come la si può fare.
Lo sanno bene i pubblicitari.
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Una palestra di autostima
Usato con se stessi, nel dialogo interiore, il verbo potere rafforza l’autostima, libera la capacità di comportarsi con gli altri in modo assertivo senza passare per prepotenti.
Se infatti intendiamo l’assertività come un sano equilibrio tra aggressività e passività, che poi si traduce nel saper accettare i contrasti, nel saper dire dei buoni no, nel sentirsi ben responsabile del proprio comportamento, non di quello del mondo intero, nel saper chiedere, senza sfrontatezza ma anche senza remore inutili (amo la prima parte di quel proverbio, “chiedere è lecito“), possiamo includere in quel territorio semantico anche l’autostima, appunto, la fiducia in se stessi.
Possiamo anche permetterci di usare quelle forme espressive che gli inglesi chiamano I language, per esempio, ossia la capacità di parlare con i verbi in prima persona. Se diventa una tendenza – io voglio, io faccio, io mi aspetto che, io decido, io, io, io… – molto probabilmente è indice di dominanza, o di un ego senza freni. Tutt’altra cosa se la intendo come la possibilità di esprimere il mio punto di vista, di sentirmi a mio agio per aver detto ciò che ritengo necessario dire. È un tratto di responsabilità, che dice “ho questi pensieri, sono i miei, puoi non essere d’accordo, questo è quello che io credo, possiamo confrontarci”.
Yes we can (con juicio)
Di certo ricordiamo il Yes we can di Obama del 2008. Slogan super-assertivo, che si accoppiava alla parola chiave di quella campagna elettorale, “Change”. Il senso era dunque Yes, we can change. We have the chance to change, possiamo cambiare.
Il gioco di parole CHANGE-CHANCE precedeva di molto quella campagna. Per esempio, la frase
Your life does not get better by chance, it gets better by change
di Jim Rohn, imprenditore e speaker motivazionale tra i top del mondo, è degli anni ’70. Più antica ancora quella di Aristotele (alcune antologie di citazioni famose giurano l’abbia addirittura pronunciata in inglese ☺)
Life is full of chances and changes, and the most prosperous of men may in the evening of his days meet with great misfortunes
che per altro, ricordandoci che le grandi disgrazie possono capitare anche alla persona più fortunata, imbocca la china opposta, non di spinta energetica, ma di invito alla cautela.
Ma quel Yes we can trovò eco in tutto il mondo. Da noi fu Walter Veltroni, nello stesso 2008, a usarla con il suo “Si può fare”. Fu un fiasco nelle urne, ma almeno guadagnò una canzone capace di spopolare su YouTube: sulle note di “Ymca”, dei Village People, partiva con “Walter, io mi fido di te, dico Walter”, con il ritornello che inneggiava a squarciagola “I’m Pd”. (no comment)
Si può fare?
Intendiamoci: non è che qui si voglia inneggiare al poter fare proprio tutto ciò che si vuole. Ci mancherebbe. Ci son cose che proprio non si possono fare. E non nel senso triestino del no se pol, quella frustrazione del sentirsi sempre un po’ tagliati fuori dai movimenti della storia, ma nel senso dei naturali confini che un vivere civile pone alle aspirazioni individuali. Chi lavora in un ospedale, per esempio, o chi assicura l’ordine pubblico nelle strade, non può permettersi lo smart working (non la pensano così alcuni agenti delle forze di polizia inglesi che, trovando molto più gradevole lavorare da casa, ora rifiutano di tornare sulle strade).
E poi ci sono cose che si devono fare, come pagare le tasse, andare a votare, rispettare le persone, la natura, le leggi, i semafori, gli orari eccetera.
Ma se il buon senso ci sostiene, son più le cose che si possono fare di quelle che no. Si può garantire allo stesso tempo la differenza e l’uguaglianza. Si può promuovere l’inclusione come abito di pensiero, e il rispetto di ogni genere e orientamento sessuale come pratica naturale. Si può smettere la guerra come sbocco di una controversia. Si può costruire dialogo tra giovani e anziani, tra persone di ogni angolo del mondo, persone con e senza religione, con e senza disabilità. Si può.
Si può persino chiudere in musica, per esempio, oltre che iniziare.
E quindi possiamo ricordarci che quasi sempre Si può dare di più, come dice quella famosa canzone. E se non ci stordiscono quegli oltre 100 verbi in Si può fare di Branduardi, la scelta ci appare davvero sconfinata:
Si puòfare, si puòfare,si puòprendere o lasciare
si puòfare, si puòfare,puoi correre,volare
Puoi cantare, puoigridare, puoi vendere,comprare
puoirubare, regalare,puoi piangere, ballare…
Perfino in amore, parola di Beatles, è vero, possiamo fallire tutto, ma è altrettanto vero che We can work it out.
Try to see it my way
Only time will tell if I am right or I am wrong
While you see it your way
There’s a chance that we might fall apart before too long
We can work it out
Prova a vederla come la vedo io,
solo il tempo dirà se ho ragione o torto.
Mentre tu continui a fare di testa tua
è possibile che possiamo cadere fra non molto.
Possiamo risolverlo