Oggi, 8 marzo, il pianeta si misura con la disuguaglianza per dimensioni più ampia e diffusa: quella tra i generi. Pressoché ovunque, ma in alcuni luoghi in maniera drammatica, le donne continuano a scontare discriminazioni, disuguaglianze, subalternità che oramai chiunque – governi o singoli individui – dichiarano di voler superare e che, invece, sembrano resistere, tenacissime, agli sforzi di cambiamento. Sulla volontà e sulle azioni, continua ad avere la meglio una cultura patriarcale ostile alla simmetria tra i generi. Superarla richiede sforzi focalizzati sulla rottura degli schemi di genere stereotipati, i bias, i luoghi comuni discriminatori, che però danno risultati su tempi lunghissimi. Gli esperti e gli studiosi delle dinamiche di genere sono convinti che per spaccare il muro delle disuguaglianze attraverso atti dagli effetti rapidi ed efficaci si devono introdurre azioni in un’area nevralgica: quella del lavoro. Non può, infatti, esserci uguaglianza, superamento della violenza di genere, costruzione di parità per le giovani generazioni senza azioni concrete delle istituzioni per favorire l’occupazione femminile, che è una ferita aperta del nostro Paese.
Troppo poche le donne che lavorano
In Italia, le donne che lavorano sono intorno al 51%, percentuale variamente fluttuante in un primato dolentissimo che ci accomuna alla Grecia, insieme a noi fanalino di coda dell’Unione Europea. Ciò accade perché l’Italia ha chiaramente un problema con le lavoratrici madri. Chi ha figli subisce, infatti, una serie di penalizzazioni. Di reddito, innanzitutto: secondo dati Inps, a quindici anni dalla maternità, i salari lordi delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli. Per non parlare delle penalizzazioni di crescita professionale e carriera, conseguenza pressoché scontata in un Paese che ha finito per normalizzare l’esercito del focolare involontario, come è chiamato quel numeroso e purtroppo in crescita segmento di donne che sono o si sentono costrette a lasciare il lavoro per prendersi cura dei figli, riducendo o annullando in questo modo il proprio reddito presente e le opportunità di costruirsi un futuro professionale. Dice un rapporto di Save the Children che nel 2019, tra le madri lavoratrici che hanno lasciato il lavoro, il 72,9% lo ha fatto per queste ragioni, contro il 27,1% dei padri e che la pandemia ha inasprito il fenomeno. Nel 2020, con 1 figlio minorenne, le donne lavoratrici erano il 61,3%, gli uomini lavoratori l’87,9%. Con 2 figli, le donne occupate erano il 57%, gli uomini l’88,7%. Con 3 o più figli, le donne al lavoro scendevano al 44,5%, gli uomini all’83,8%.
Costruire carriere e asili nido
Difficile, arduo costruire quell’uguaglianza di genere che anche l’ONU indica a tutti i Paesi di raggiungere con l’Obiettivo 5 della sua Agenda se alla metà del Paese è precluso il diritto di lavorare, quando lo desidera. Molte imprese, le più grandi e innovative, stanno introducendo concrete policy e progetti per sostenere le assunzioni, le carriere femminili, la conciliazione tra i tempi di lavoro e quelli della cura famigliare e la Certificazione della Parità di Genere, recentemente introdotta con una legge dello Stato per misurare e rendicontare quanto le aziende fanno per essere eque, sta dando i suoi frutti. Intanto, bisogna costruire infrastrutture sociali, ovvero asili nido, perché oggi la cura famigliare ricade interamente sulle donne: più nidi significa, infatti, aumentare la probabilità delle donne di essere occupate, di trovare cioè un lavoro se non l’hanno o di mantenerlo, perché troppo spesso si ritrovano, invece, obbligate a scegliere tra famiglia e professione. Recentemente, una raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea ha innalzato dal 33 al 45% la percentuale dei bambini che in ogni Stato dovrebbero poter accedere ai sistemi educativi per la prima infanzia. Una quota molto sfidante, considerato che il nostro Paese è già indietro di quasi 6 punti dall’obiettivo precedente. Il PNRR ha stanziato 3 miliardi per finanziare 2.190 interventi: 333 per scuole dell’infanzia e 1.857 per asili nido e poli dell’infanzia per l’intera fascia di età 0-6 anni. Ma ritardi e inefficienze stanno ostacolando la realizzazione effettiva del piano.
Che fine ha fatto il bollino rosa sugli appalti?
Il PNRR ha voluto agire anche esplicitamente sull’occupazione femminile, assicurandosi che i progetti finanziati contribuiscano in modo diretto ad aumentarla: lo ha fatto attraverso un dispositivo che obbliga gli aggiudicatari di fondi a destinare alle donne almeno il 30% dell’occupazione aggiuntiva che deriva dalle attività ad essi connessi. Peccato, però, che nello schema del decreto attuativo del Codice degli appalti sia sparita l’obbligatorietà del cosiddetto bollino rosa, quella sorta di certificazione che garantisce che l’impresa, appunto, adotta le politiche svolte a incentivare l’occupazione femminile. L’Italia, insomma, mostrando risultati contraddittori si sta misurando con obiettivi che sono a tutti gli effetti una sorta di ultima chiamata per la parità di genere. Intanto i due Paesi europei culturalmente più affini al nostro hanno costruito provvedimenti legislativi, per imporla, la parità di genere.
Imporre la parità di genere
La Francia ha appena adottato un provvedimento che obbliga le aziende con più di 250 lavoratori a misurare l’indice di parità e a renderlo pubblico sul proprio sito, in modo che la società tutta ne sia sempre al corrente. Se non lo fanno o se l’indice è inferiore a 75/100, a meno che non indichino azioni compensative da mettere in campo ricevono una penalizzazione economica e, comunque, non potranno partecipare agli appalti pubblici.
In Spagna, dopo aver approvato la riforma dell’aborto e la legge trans, il Governo ha imposto la parità di genere nelle aziende e nel Governo stesso: il 7 marzo ha, infatti, approvato una legge che obbliga i consigli di amministrazione delle imprese quotate o di interesse pubblico con più di 250 lavoratori ad avere almeno il 40% di donne e, in politica, i consigli dei Ministri a fare altrettanto (oggi nel Governo del premier Sànchez la quota di donne è del 60%). La legge ha quindi esteso la parità di genere ad altre realtà istituzionali, comprese le giurie dei premi, che non potranno più finanziare con soldi pubblici riconoscimenti assegnati da giurie che non siano composte almeno al 40% da donne. «Se le donne rappresentano la metà della società, allora la metà del potere economico e politico deve essere delle donne», commenta il premier Pedro Sànchez, titolare del Governo più femminista che il mondo in questo momento stia conoscendo. «Ci saranno persone a cui sembrerà grave o persino sproporzionato, ma a noi sembra semplicemente giusto».