Donne e uomini non giocano la partita del lavoro ad armi pari: osservando quanto accade nelle organizzazioni, diversi studi hanno ormai dimostrato che, a parità di competenze, le donne vengono giudicate con un metro di valore più severo. Un metro che, dunque, trucca il campo da gioco, rendendolo per le donne più incerto, insidioso, faticoso. Studi americani, per esempio, hanno attribuito lo stesso curriculum accademico a uomini e donne e hanno visto che quando è associato a un nome maschile, il 70% dei selezionatori tende a raccomandare l’assunzione per una cattedra universitaria, percentuale che scende al 40% se il curriculum è associato a un nome femminile.
Si tratta di un doppio standard da cui la sociologa Camilla Gaiaschi – Ricercatrice all’Università del Salento e Marie Curie Fellow all’Università di Losanna – ha preso il via per costruire un’analisi delle disuguaglianze in ambito scientifico oggi confluita nel saggio intitolato, neanche a dirlo, Doppio Standard, donne e carriere scientifiche nell’Italia contemporanea (Carocci).
L’aspetto suggestivo del volume è l’essere stato via via costruito dall’autrice sulle scoperte di paradossi, di proposizioni contrarie non solo al senso comune, ma anche a parte delle conoscenze finora acquisite dagli studi sul lavoro. «Per esempio, ho scoperto che il settore privato non è più iniquo di quello pubblico; che la maternità non incide in maniera significativa sulle carriere scientifiche, mentre le implicazioni, per le donne, delle riforme neoliberali dell’accademia italiana sono molto più sfumate e complesse rispetto a quanto un’ampia letteratura di studi su genere e accademia ha fin qui suggerito», spiega Gaiaschi. Incuriosita dalle contraddizioni in cui di volta in volta si imbatteva, Gaiaschi ha compiuto perlustrazioni sempre più estese, approfondimenti e continue messe a fuoco spingendo le sue osservazioni sempre più in là, verso confini ogni volta più sottili alla ricerca di nuovi e inesplorati nessi causali delle iniquità di genere.
Dunque, un doppio standard di valutazione.
La maggior parte degli studi conferma che le donne, a parità di competenze e risultati, hanno meno opportunità, in termini di occupazione e promozione, degli uomini. Ciò implica che per emergere devono essere più competenti e portare più risultati.
Diceva della maternità: è un ostacolo, ma non sempre quello cruciale. La società lo sta forse sovrastimando?
Appena messo piede nel mondo del lavoro, avevo sentito letteralmente nella pancia quanta ingiustizia muovesse la maternità: mi era diventato subito chiarissimo che chi decide di diventare madre si ritrova automaticamente in condizioni di svantaggio. E, del resto, numerose ricerche dimostrano ormai il significativo effetto negativo esercitato dalla maternità sull’occupazione e sulle carriere delle donne, rispetto al quale dobbiamo assolutamente trovare soluzioni importanti di riequilibrio. Studiando le professioni a elevata qualificazione, però, ho scoperto che se la maternità può essere una delle ragioni forti che ostacolano l’uguaglianza di genere, non ne è l’origine, così come la parità in casa tra uomo e donna, nella condivisione della cura famigliare, è condizione necessaria per una parità anche lavorativa, ma non è sufficiente. Il nocciolo è che le donne sono discriminate in quanto donne, prima che in quanto madri: a parità di competenze, ottengono meno. Aggiungo: chi ce la fa a raggiungere posizioni apicali sperimenta dimensioni finalmente di uguaglianza, ma si tratta di un’uguaglianza per poche.
Intende dire che il soffitto di cristallo spalanca qua e là varchi e porte d’accesso?
Da una ricerca compiuta tra i medici, emerge che in quest’area le donne non sono bloccate dal soffitto di cristallo. Tra i viceprimari, le donne non vivono uno svantaggio statisticamente rilevante nella promozione allo step successivo: ciascuna di loro ha, cioè, le stesse probabilità rispetto al collega maschio di diventare primario. Il punto è che nelle fasi precedenti queste professioniste sono state selezionate con maggiore severità, per cui quelle che arrivano alla carica di viceprimario sono più brave: il risultato è che non subiscono discriminazioni nell’arrivare in vetta, perché le discriminazioni le hanno subite prima. Ecco, dunque, il senso dell’uguaglianza per poche, la condizione di equità che vivono queste donne supercompetenti, le sopravvissute alle discriminazioni.
Gli studi prevalenti hanno sempre ritenuto che occorra una massa critica per costruire vero cambiamento, ovvero tante donne nei luoghi di lavoro, tante donne nei ruoli di comando.
Sì e no. La realtà ci ha dimostrato che il cambiamento è comunque lento e che basta il sopraggiungere di una crisi economica perché le poche posizioni raggiunte siano messe a repentaglio e tornino nelle mani degli uomini.
Uno dei paradossi citati nel suo libro considera che le italiane, che pure scontano un’occupazione bassissima, vivano sul lavoro condizioni più eque rispetto a quelle dei Paesi del Nord, che hanno però molte più opportunità di lavoro.
Certamente l’Italia soffre una bassa occupazione femminile, tra le peggiori nella UE (l’Islanda traina la classifica con un tasso del 78%, l’Italia arranca in fondo, con il 52%). Ma, analizzando i dati di genere sull’occupazione, dobbiamo interrogarci, oltre che sulla quantità, anche sulla qualità di questa stessa. Nei Paesi che hanno spinto per creare più lavoro per le donne, si rileva infatti che le lavoratrici soffrono un’elevata segregazione professionale, così come un rilevante disparità salariale: nei Paesi Bassi, per esempio, dove il 74% delle donne è occupata, di queste il 75,5% lavora a metà tempo, contro il 29% degli uomini, un part-time gap a dir poco enorme, con il carico di svantaggi che ne consegue, ovvero bassi compensi, minori prospettive di carriera, pensioni esigue… Dove, invece, l’occupazione è bassa – come nei Paesi mediterranei – il divario salariale e la segregazione professionale sono più contenuti. Voglio dire che quando si guadagna in occupazione femminile, si perde in uguaglianza di genere. È come se per le donne la coperta fosse sempre corta e fosse, dunque, impossibile costruire un equilibrio equo, rendere permanente l’uguaglianza. Mi verrebbe da dire costruire normalità.
L’equità tra i generi sembrerebbe dunque irraggiungibile. Quali azioni concrete possono realizzare subito qualcosa per favorirla?
Penso che si debba ancora spingere per potenziare le politiche famigliari, ma a patto che si insista sulla responsabilità dei padri. Quindi, si dovrebbe continuare ad agire per smantellare gli stereotipi inconsci e i sistematici pregiudizi di genere, che producono sessismo e discriminazioni. E poi penso che nelle organizzazioni aziendali si debbano adottare criteri di selezioni standard che non favoriscano, nelle assunzioni, un genere piuttosto che l’altro: in ambito pubblico, dove i concorsi prevedono – quanto meno nella prima fase della selezione – la partecipazione anonima dei candidati – e quindi la non conoscenza del loro genere in sede valutativa – le donne li vincono. Quindi credo che si dovrebbero estendere le quote rosa – ora riservate ai CDA in particolari condizioni- all’intero alto management, perché sono ancora drammaticamente poche le donne ai vertici. Infine, mi faccia dire: tutti siamo chiamati a contribuire per costruire un mondo che non discrimina più. Nessuno deve avere paura di rompere le rigidità di una società disuguale.