Quando ho bisogno d’ispirazione su una parola, apro il dizionario. Spesso al piacere della scoperta aggiunge il gusto dell’inversione, da mezzo a fine: da strumento di consultazione occasionale, può diventare invito all’apertura mentale.
violenza
dal latino vis, forza
– l’essere violento; tendenza a usare la forza fisica per imporre ad altri la propria volontà
– carattere violento di un’espressione, una parola, un gesto
– intensità con cui si manifesta un fenomeno naturale o atmosferico: un incendio, una piena, un sisma
– coercizione aggressiva, esercitata su qualcuno con mezzi fisici, influendo sulla psiche o la volontà.
Concetto quasi senza confini. Conviene delimitarlo, altrimenti ci si perde.
Non è violento il catcalling, quel campionario di complimenti non richiesti, commenti volgari indirizzati al corpo, strombazzate dall’auto, domande invadenti e altre forme di molestie sessiste?
E che sarà mai? Dai che fa piacere pure a te.
Sì, come no. Piacere immenso da uno sguardo penetrante, un commento o un fischio per strada.
E non è violento anche chiamare insistentemente “boomer” le persone in età? (e qui parlo con diretta cognizione di causa) O chiedere a una donna, durante un colloquio, se desidera avere figli? O, al ristorante, ignorare una persona con disabilità, e chiedere a chi l’accompagna «Per lei/lui cosa ordiniamo?».
Potremmo continuare. Stringendo il campo, il concetto generale di violenza è l’esercizio del potere da parte di alcune persone che cercano di preservare la propria autorità/identità, a danno degli altri. Come suggerisce l’attivista americana Bell Hooks, nel suo appassionato Feminism is for everybody, la nostra società sembra accettare l’idea che sia normale esercitare potere su chi non ne ha. Quindi, se prevale la logica della dominazione, la violenza è un modo di comunicare e strutturare la relazione. Concetti che Hooks doveva avere ben presente, essendo nata e cresciuta nel Kentucky segregazionista degli anni Cinquanta, e avendo sperimentato la violenza nelle varie sfumature di razza, classe e genere.
Giochi di parole, giochi di forza
Avete voluto la parità? Se ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta a freno, se si fosse vestita in modo decente, non sarebbe successo niente.
Nel 1978 a Latina quattro uomini stuprano una ragazza diciottenne e vengono chiamati in tribunale. Ironia della sorte, sotto processo finisce la ragazza. Oltre al danno, infierisce la violenza del pensiero comune, con una pressione distruttiva su chi è già vulnerabile.
Un anno dopo, un collettivo di sei registe femministe dirige per la Rai il documentario Processo per stupro, che racconta ciò che avvenne in quell’aula giudiziaria e che tanto sconvolse l’opinione pubblica. Una fotografia della visione culturale italiana e di come viene affrontata la violenza di genere nelle aule giudiziarie. Un documento sulla doppia violenza esercitata nei confronti della giovane donna, prima dagli imputati e poi dagli avvocati, dalle famiglie. Per la prima volta la tv mostra l’evidenza: l’avvocata della ragazza, Tina Lagostena Bassi, denuncia la concezione che vede la donna come oggetto e che da vittima la trasforma in imputata.
Era il 1978: quanto e come è cambiata la situazione?
Genere e violenza
La violenza di genere è un’espressione introdotta a Pechino nel 1995 dalla IV Conferenza delle Nazioni Unite sulle Donne, e ripresa in occasione della Convezione di Istanbul (2011) con l’obiettivo di eliminare e prevenire ogni forma di violenza contro le donne. Violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale contro la donna che non rispetta il ruolo sociale impostole.
La violenza di genere è dunque solo violenza contro le donne?
Quando ne sentiamo/leggiamo nei notiziari, ci facciamo subito un’idea di chi ha subito e di chi ha aggredito. E anche se quest’ultima non compare subito, è facile vedere la sagoma di un uomo.
Uomini-autori/donne-vittime: questo è il significato cristallizzato nella nostra mente.
Certo, i numeri parlano chiaro: i reati a sfondo sessuale e la condotte persecutorie (stalking) registrano un numero più consistente di aggressori maschi e vittime femmine. Forse però il legame tra genere e violenza è più sfaccettato.
Se per genere intendiamo le identità maschile, femminile e non-binaria, nell’espressione violenza di genere dovremmo includere anche la violenza subita dalle persone trans, queer e omosessuali, oltre che la violenza esercitata dalle donne stesse sugli uomini o su altre donne, sempre originata da questioni legate al sesso o al genere, appunto.
La lingua genera la realtà, o viceversa? Il caso della parola “femminicidio”
Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.
Dice così anche l’articolo 17 della citata convenzione di Istanbul: i mass media hanno la responsabilità e il dovere di prevenire la violenza.
Da molti anni ci s’interroga sugli effetti della violenza nei/dei media sul pubblico, e da qualche anno il dibatto si è riacceso in considerazione della complessità aggiunta da media digitali, che ospitano la violenza in varie forme.
Una conclusione emerge chiara: i media e l’industria culturale hanno un ruolo centrale nel contribuire a creare linguaggi e pratiche attraverso cui i concetti di genere e violenza s’intrecciano. Sono le cornici entro cui si crea la conoscenza sociale e si plasma la percezione della realtà.
Prendiamo ad esempio la parola femminicidio. Nel 2006 il termine compariva in soli tre articoli su tutta la stampa italiana, nel 2011 in 51, nel 2012 in ben 751. Nel 2013, l’anno della legge sul femminicidio e del riconoscimento del termine da parte dell’Accademia della Crusca, la parola era su 4.986 articoli di cronaca e non. (fonte: Rivistweb – la piattaforma italiana per le scienze umane e sociali) .
Come lo definisce l’antropologa Marcela Lagarde, il femminicidio è «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine (…) che comportano l’impunità (…) tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa».
Il linguaggio influisce sul modo in cui pensiamo e agiamo. Dal momento in cui il termine femminicidio è diventato di uso comune sui media, ha portato con sé precise rappresentazioni cariche di pregiudizi e di strumentalizzazioni di vittime e carnefici. Narrazioni cariche dettagli che possono persino fungere da istruzioni per l’uso della violenza.
Un’altra analisi interessante è quella dell’Università della Tuscia. Tra il 2017 e il 2019, per esempio, ha pubblicato il Progetto STEP, che analizza 16.715 articoli da 15 testate giornalistiche per indagare gli stereotipi che colpiscono la donna vittima di violenza in ambito giudiziario e sulla stampa.
Nell’immagine a fianco, una panoramica delle parole più citate negli articoli analizzati. In particolare, si evidenzia uno squilibrio nella rappresentazione di donne e uomini e del loro ruolo nella narrazione della violenza. Le donne mogli, madri di famiglia, a casa, vittime di stalking. Gli uomini citati un numero di volte irrilevante, come irrilevante sembra il loro ruolo nella violenza.
E ancora, sempre in tema di stampa, il Manifesto di Venezia contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini, del 2017, per un uso inclusivo del linguaggio.
I commenti seguono la narrazione
Se forse ci si impegnava a stare insieme come una volta
Lui si sentiva trascurato
Portava il pane a casa, la donna oggi pretende un po’ troppo da questi uomini
Evidentemente la donna non aveva capito il profondo sconvolgimento che la sua decisione di privarlo della famiglia aveva prodotto nel marito
Sono alcuni commenti presi dal web e riportati in una lezione di Giulia Siviero per ilPost.
Le narrazioni di violenza sconvolgono l’opinione pubblica, che si fa un’idea in base a ciò che viene mostrato e alle parole usate dai media per raccontare gli episodi, spesso proponendo una lettura semplificata degli eventi, che si riduce a poche e ripetute espressioni.
Per esempio, quando la violenza è associata all’amore:
Amore passionale, delitto passionale, amore malato, amore criminale. Lui l’amava troppo. Le si è disteso accanto in un estremo gesto d’amore malato. Dieci anni felici poi la tragedia, sembrava un amore perfetto, uniti nella morte per sempre.
3 settembre 2017. Specchia, provincia di Lecce. Noemi Durini, 16 anni, scompare dopo essere uscita di casa alle prime ore del mattino. L’ultima persona ad averla vista è un diciassettenne con cui aveva una relazione da circa un anno. La sera del 13 settembre il ragazzo confessa ai carabinieri di averla uccisa. E il titolo è bell’e pronto:
La ragazzina ribelle e un amore malato, Il Giornale, 14/09/2017
Oppure, quando il comportamento di chi aggredisce è conseguenza di quello della vittima:
Accecato dalla gelosia, lei lo aveva tradito, lei lo aveva lasciato, aveva perso da poco il lavoro, soffocato dai debiti, non sopportava l’idea di perderla, è disperato, in lacrime durante l’interrogatorio, si era sentito abbandonato
Ancora un paio di titoli sul caso di Specchia in cui il ragazzo viene descritto come una persona fraglie, con le sue insicurezze adolescenziali:
La confessione del ragazzo: «L’ho uccisa perché voleva lasciarmi», Quotidiano di Puglia, 13/09/2017
Quando poi il movente è associato a una patologia, il vocabolario esplode: follia, raptus, delirio, perdita di controllo, ha perso la testa dopo una lite.
Cuneo: la confessione del militare che ha ucciso la fidanzata: “Abbiamo litigato, ho perso la testa”, Repubblica, 23/05/2020
Altri tipi di “vis”
Nel dizionario si trovano tanti altri significati di “vis”, ossia violenza-forza. C’è la forza cattiva e quella buona, quella distruttiva e quella costruttiva.
Per esempio, c’è la violenza della minaccia, dell’esagerazione. E non solo nei conflitti, o nei contesti di prearicazione. Persino in ambito sanitario: «Signora, glielo dico chiaro e tondo. Se non smette di fumare si chiuderanno tutte le vene e dovremo amputarle una gamba, e poi magari anche l’altra». Non sto inventando. Sono parole dette dal chirurgo vascolare a mia madre, da sempre accanita fumatrice. Ho provato anch’io a seguire quella strategia. Smussando le punte, ma il senso era quello: parlavo di «conseguenze tremende», «disagi gravissimi», «vita impossibile». Con lei ho toccato addirittura la corda dell’autonomia, dipingendo le tinte più fosche sull’immagine della sedia a rotelle. Effetto: zero. Del resto, frasi come «Il fumo uccide», «danneggia gravemente la salute», «chiude le arterie»…, stampate da anni sui pacchetti, non hanno minimamente ridotto il tabagismo. Anzi, hanno generato familiarità, e un’omeopatica sdrammatizzazione. Addirittura il comico! Circola questa barzelletta: un tipo entra in tabaccheria e ordina un pacchetto; uscendo, nota la scritta: «Il fumo rende impotenti». Si blocca. Torna. «Scusi, mi dà il fumo uccide?»
C’è poi la forza della tenacia, del costante farsi carico del quotidiano, a sopportare pressioni, difficoltà emotive, impatto sociale o economico (la maggior parte delle persone vittime di violenza perdono il lavoro).
Ancora, c’è la forza della disperazione. O, oseremmo dire, della “ri-sperazione”. La capacità di trovare un nuovo scopo in cui sperare, dopo il fallimento di una speranza.
Sinonimi
Per concludere, torniamo al dizionario.
Anche sorvolando sul fatto che l’etimo vis, forza, è lo stesso di virtus, e anche di vir, ossia l’uomo per bene, coraggioso, valoroso, l’eroe, altri spunti interessanti vengono dai sinonimi di violenza: furia, impeto, prepotenza, virulenza; aggressività, ferocia, irruenza; litigiosità, rissosità, crudeltà; sopruso, maltrattamento, angheria, oltraggio; teppismo, vandalismo.
Altri, persino dai verbi collegati: violare, oltraggiare, contaminare; devastare, guastare, profanare; infrangere, trasgredire, tradire; danneggiare, insozzare, tingere.
Tingere? che c’entra tingere?
Beh, è la magia delle parole: vìola, accento sulla i, è l’azione violenta.
Sposti l’accento sulla o, e parte il suono caldo, profondo, avvolgente di uno strumento musicale.
E parte il colore, e il profumo, di un piccolo bellissimo fiore.