Le aziende, grandi e piccole, se vogliono progredire e restare competitive devono far ricorso ad idee esterne: le startup sono uno straordinario reparto di “ricerca e sviluppo” con cui collaborare e crescere
Se frequentate gli eventi di startup, avrete notato anche voi che c’è solo una espressione più frequente di “innovazione”: è “open innovation”, l’innovazione aperta, come se potesse esistere una innovazione chiusa.
Oggi il concetto ci appare così ovvio, scontato da risultare persino tautologico. Una ripetizione. E il suo contrario, suona come un assurdità. E invece per secoli l’innovazione è stata chiusa, ovvero protetta da segreti, brevetti e formule legali alte come i muri di un castello. E in buona parte è ancora così: la cosa infatti non è priva di senso, come si sarebbe portati a pensare, anzi, altrimenti non si spiegherebbe la longevità di questo modello.
Eppure adesso tutti parlano di “open innovation” come di una cosa buona e giusta. Tutti ne parlano ma il primo a parlarne è stato un economista americano che nessuno cita mai. Si chiama Henry Chesbrough, insegna a Berkeley e nel 2003 ha pubblicato il primo libro sul tema: “The Era of Open Innovation”. Primo di una lunga serie di libri che ruotano tutti attorno alla stessa, formidabile, idea. Questa: le imprese, grandi e piccole, se vogliono progredire e restare competitive debbono far ricorso anche ad idee esterne.
Che cos’è l’open innovation
Sono convinto che Salvo Mizzi conoscesse le teorie di Chesbrough quando nel 2009 mi invitò a presentare e poi accompagnare il varo di Working Capital. Allora Salvo Mizzi lavorava nell’ufficio comunicazione di Telecom Italia e Working Capital nasceva come un progetto di comunicazione. Per dirla in modo brutale: si organizzavano degli eventi con dei giovani aspiranti startupper per far parlare bene di un brand, Telecom Italia, che per alcuni non era esattamente associato con l’innovazione. Ma il progetto di Mizzi – come si è visto dopo – andava molto aldilà della comunicazione. Era, oggi possiamo dirlo, uno dei primi progetti di Open Innovation d’Italia. E quindi la selezione delle startup non era volta solo a creare della comunicazione ma a far crescere nuove imprese con tecnologia che potesse essere utile a Telecom Italia. E infatti quando al timone di Telecom è arrivato Marco Patuano, Working Capital è passato dal settore “communications” a quello “operations”: e sono nati i primi acceleratori targati WCap: cioé degli spazi dove le startup possono provare a crescere in fretta, a misurarsi con il mercato. La creazione di TIM Ventures, cioé di un investitore dedicato, è stato l’ultimo tassello di questa strategia che ha portato a molti investimenti “veri”, oltre i classici 25 mila euro di “grant” con cui WCap era nato; ma a mio parere un segnale ancora più importante è stato il fatto di aprire alle startup l’Albo Fornitori, ovvero la possibilità di diventare clienti di Telecom Italia.
C’è una idea, una idea formidabile, dietro questo percorso avviato nel 2009: ed è l’idea di Henry Chesbrough, sempre quella. Ovvero che le aziende, piccole e grandi, ma ancora di più quelle grandi, se non vogliono diventare dei ministeri, devono aprirsi all’innovazione che c’è fuori. E da questo punto di vista
le startup, le oltre cinquemila startup italiane, sono uno straordinario reparto di “ricerca e sviluppo” con cui collaborare.
Questo percorso ovviamente non è solo italiano, anzi: per Google, Facebook, Twitter e Microsoft – per citare i casi più famosi – acquisire startup o anche solo startupper è una strategia così solida e abituale da non aver bisogno di annunci e spiegazioni. E non è solo di Telecom Italia, perché nel frattempo molte altre aziende hanno intrapreso la stessa strada. Il tempo in cui incontravi l’amministratore delegato di una grande fabbrica di automobili o di navi da crociera e ti diceva: “Startup? A me non servono”, è passato per sempre.
Contaminare il Paese
Ma è in Italia che l’open innovation diventa molto di più delle strategia di una singola azienda per diventare la politica di un intero paese: se in questi anni qualcuno vi ha detto che per far ripartire l’economia sarebbe bastato sostituire le vecchie aziende con delle startup nuove di zecca, vi ha mentito. Sappiamo tutti benissimo che per ogni successo, ci sono centinaia di fallimenti. Ma è invece possibile che le startup, e gli startupper, contaminino le vecchie imprese, le accompagnino nel futuro, le portino sulla strada della crescita.
E’ questa l’Open Innovation di cui parleremo in questo nuovo blog. E non è un caso, per quello che ho detto prima, che nasca sotto l’egida di TIM (ex Telecom Italia) e del mondo di WCap – anche se ovviamente sarà aperto alle buone pratiche di tutti. Invece è un caso, un caso fortuito del calendario, il fatto che parta oggi, a tre anni esatti dalla nascita di StartupItalia!. Quello che ha realizzato in tre anni StartupItalia! è sotto gli occhi di tutti. La crescita di traffico è impressionante (lo sapete che siamo quasi ad un milione di utenti/mese?). Ma quello che conta ancora di più è l’autorevolezza guadagnata sul campo, giorno dopo giorno. Merito di chi ci lavora, giorno dopo giorno, non è scontato dirselo. Ma merito anche di una formula che da subito ha declinato il fenomeno startup all’italiana, ovvero provando a creare delle community dove le grandi aziende potessero scoprire e incontrare i migliori talenti del rispettivo settore.
Si chiama Open Innovation. Da oggi è anche un blog. Buona lettura a tutti.