Dopo qualche anno di attività il car sharing inizia a entrarci sottopelle. Ma quei veicoli che sono di tutti e di nessuno stanno davvero funzionando, in Italia? Oltre a un fatto specifico di cultura – la condivisione per spendere e consumare meno ma soprattutto come carattere di una vita più leggera e spontanea – Enjoy, Car2Go, DriveNow, Sharen’go e tutti i servizi di scooter sharing hanno un loro senso economico?

I conti (ancora) non tornano
Un recente servizio del Corriere della Sera spiega che il giudizio è sospeso e francamente i conti non sembrano andare benissimo. Le duemila Smart di Daimler-Mercedes, le 2.170 Fiat 500 (e 500L) e le 500 Mini e Bmw, oltre alle 1.450 macchinine Zd elettriche producono fatturati e attivi? Non esattamente. O meglio: se salgono i fatturati salgono anche i costi e le perdite d’esercizio.
I dati disponibili non sono molti ma qualche dettaglio può fornire l’idea: Car2Go, per esempio, ha messo a bilancio nel 2015 22,5 milioni di euro per costi di produzione mentre i ricavi erano fermi a 12,3 milioni con una perdita da 7,5 milioni, in crescita rispetto agli anni precedenti (ma parliamo di due anni fa). Anche Sharen’go della livornese Cs Group, a sua volta controllata dal colosso cinese Geely, che pure sta crescendo moltissimo e punta a salire oltre 4.500 veicoli, non sembra andare troppo bene: ricavi per 3 milioni di euro, costi di produzione 4,5, perdite 1,2 (sempre nel 2015). Car2Go, infine: 29,3 milioni di fatturato e costi totali da 43,7 milioni di euro. All’interno di queste perdite non sembrano ininfluenti gli atti di vandalismo, gli incidenti o i furti dell’auto o di sue parti.

Oltre il dato economico
Ovviamente il senso del car sharing si spinge oltre il dato economico perché sfoggia una quantità di lati positivi e virtuosi per i grandi marchi automobilistici. Consente per esempio di presentare nuovi modelli (si pensi all’i3, una ventina in circolazione per Milano), di alzare l’asticella dei desideri dei consumatori, spingere nuove tecnologie (fra cui l’elettrico) senza dimenticare il marketing (come dimostra la nuova società Eni Fuel in cui sono confluite le attività di Enjoy) e l’immagine. Un quadro simile usciva già qualche mese fa dai primi risultati del rapporto nazionale dedicato al settore di cui avevamo parlato, coordinato da Massimo Ciuffini della Fondazione per lo sviluppo sostenibile.
La tesi generale è che serva tempo, che si tratti di una lenta rivoluzione culturale per cui i bilanci prima o poi si chiuderanno in attivo, anche dedicando un’attenzione spasmodica ai costi

Gli affari dei comuni
Infine ci sono i comuni che pure incassano non poco grazie ai canoni per sosta e accesso alle Ztl: 1.100 euro l’anno per veicolo a Milano, 1.200 a Roma, 600 a Firenze, 700 a Torino. Costi che invece chi noleggia solo scooter non sostiene: eCooltra, già presente a Barcellona, Madrid e Lisbona, è appena partita a Roma: a 30 giorni dal lancio nella capitale i chilometri percorsi dagli utenti sono stati 20mila, hanno permesso il risparmio di 2.400kg di CO2. ZigZag, invece, che non è elettrico ma offre centinaia di scooter Yamaha Tricity 125, alla fine di marzo comunicava 50mila noleggi in appena sei mesi di operatività, con una crescita del 60% mese su mese. E un progressivo allargamento delle zone coperte.
Ecco, proprio su copertura e utenti si gioca la partita futura del car e scooter sharing. L’anno scorso gli utenti sono stati un milione per 6,4 milioni di noleggi. Sembrano numeri roboanti ma in fondo, almeno per il momento, disegnano di fatto l’utenza come una pur ampia élite di privilegiati. Anzitutto perché questi network sono attivi in pochissime grandi città italiane (Roma, Milano, Torino, Firenze, Catania, Modena). Per dire, centri come Napoli o Palermo ne sono tagliati fuori se non per servizi comunali o di piccole dimensioni che non sono paragonabili all’offerta dei colossi Car2Go e simili.

Non basta: anche nelle poche città servite (a eccezione di Milano, sotto questo profilo piazza privilegiata per lo sviluppo e le sperimentazioni nel settore) le aree coperte faticano ad allargarsi. Anzi, in passato si sono anche ristrette. Se su Roma tutti – tutti – i servizi elencati lasciano fuori quadranti importanti e popolosi come quello orientale, altrove
queste piattaforme fanno fatica a ricucire periferie e centri urbani
(a Torino non arrivano a coprire, tanto per fare un esempio, Nichelino che dista appena 10 chilometri dal cuore del capoluogo piemontese). A Firenze e Catania va invece un po’ meglio (anche se i mezzi, per esempio di Enjoy, sono pochini: appena 75 all’ombra della cupola del Brunelleschi).

A cosa serve davvero il car sharing?
Il punto, dunque, è domandarsi anche a cosa serva davvero il car sharing in queste condizioni. Assodata l’utilità per gli spostamenti centrali, per l’ultimo miglio, per evitare di preoccuparsi a orari del trasporto pubblico e mezzi privati
il prossimo passo dovrebbe essere ora l’autentica ricaduta sociale. Sì, proprio in questa fase in cui i bilanci ancora non tornano:
il car sharing non può rimanere uno strumento esclusivo dell’Italia metropolitana e centrale. Deve farsi intelligente, proporre accordi fra piccoli comuni limitrofi, puntare (come fa la startup Jojob) agli accordi con le aziende per favorire la mobilità condivisa e il pendolarismo di gruppo (a breve sarà della partita anche BlaBlaCar con BlaBlaLines) e, più concretamente, iniziare almeno a collegare le periferie ai salotti scintillanti delle città. Altrimenti rimarrà uno strumenti per i privilegiati del centro e poco più.