Intervista al ceo di King Digital che dopo l’exit di novembre (5.9 miliardi) ha creato un fondo di venture e ha rinnovato il suo impegno in Italia: «Sogno di tornare in Italia, c’è tanto da fare per il digitale e le startup»
Riccardo Zacconi è forse uno dei nomi italiani più noti al mondo della digital economy. Romano, 49 anni, laureato alla Luiss, insieme a Mel Morris ha creato King Digital, società di videogiochi da cui è nata Candy Crush, venduta ad Activision lo scorso novembre per 5,9 miliardi di dollari. In questi mesi Zacconi ha cominciato a lavorare ad una serie di iniziative per contribuire allo sviluppo della cultura di impressa, e del digitale in Italia. Gli abbiamo chiesto in cosa consiste questo suo impegno e quali sono i suoi progetti.
Uno dei concetti che sottolinei più spesso è la necessità di diffondere la giusta cultura d’impresa digitale in Italia se vogliamo che ci siano startup di successo. Cosa intendi?
“E’ semplice: da un lato bisogna cominciare a creare aziende che abbiano da subito l’ambizione di crescere a livello mondiale. Dall’altro in Italia bisogna diffondere una nuova cultura d’impresa che non consideri un perdente un imprenditore che sbaglia, ma qualcuno che ci ha provato e se ha sbagliato comunque ne esce con maggiore esperienza. Provare è fondamentale se si vuole creare qualcosa di innovativo”.
Come si concretizza questa idea in King Digital?
“In King Digital sappiamo che in questo mercato bisogna essere agili, veloci. Noi facciamo giochi e fallire è parte del modello perché magari capita di fare giochi che non vanno come ci aspettavamo. L’importante è imparare dall’errore e ripartire. Un altro aspetto fondamentale per noi è creare dei team di lavoro fatte da persone giuste. Che siano curiose, che abbiano voglia di creare qualcosa di nuovo, una nuova esperienza per nostri utenti, migliore di quella che esiste oggi sul mercato”.
Perché per un’azienda oggi è così importante avere ambizione internazionale?
“Oggi una startup può crescere con gli stessi costi a livello nazionale o mondiale. E’ possibile da subito acquisire clienti in ogni parte del mondo. Ma se si punta solo al mercato nazionale il valore che un’azienda può acquisire è limitato dal mercato di riferimento. Difficilmente attirerò investitori internazionali, ma se mi va bene solo investitori locali. Sono convinto che fare startup di successo è possibile ovunque, anche in Italia. Ma dobbiamo cambiare cultura. Bisogna avere da subito l’ambizione di scalare a livello globale. Che in sintesi vuol dire due cose: uno, creare un prodotto competitivo a livello internazionale; due, fare marketing (digitale) da subito anche in mercati non italiani”.
Eppure quando tu hai lanciato la tua lo hai fatto all’estero.
“Oggi noi abbiamo dodici sedi, ma nel 2003 ne avevamo due: una a Londra e una in Svezia. In UK facevamo marketing, in Svezia il prodotto. In Svezia in genere è più facile trovare persone con esperienza di livello internazionale in quanto è un paese con un mercato nazionale piccolo, e per crescere le aziende digitali cercano subito di lanciarsi a livello globale”.
Sembra quasi che avere un mercato nazionale grande, come ce l’ha l’Italia che è il terzo in Europa, sia un freno a crescere a livello globale.
“Esatto. L’Italia ha un mercato di 60 milioni di persone ed è abbastanza grande da sembrare sufficiente per una startup. Ma se si punta solo al mercato nazionale si corre il rischio di chiudersi dentro i suoi confini, senza guardare all’estero”.
Tu che rapporti hai con la startup scene italiana?
“Non molti. La maggior parte dei miei contatti è all’estero. Ma sono italiano, ho il cuore italiano come si dice spesso. E in questo periodo sto cercando di sfruttare i contatti e le conoscenze che ho per fare in modo che ci siano più startup che abbiano successo a livello globale”.
In che modo pensi di aiutare le startup italiane?
“Su due livelli. Innanzitutto per creare un piano di azione di lungo termine ritengo che si possa imparare molto su come supportare l’economia digitale a livello politico da altri paesi come la Gran Bretagna e l’Estonia, ma anche a livello regionale da città come New York. Le istituzioni possono fare tanto. Come interventi di lungo termine per facilitare gli investimenti nel settore e la nascita di imprese innovative, ma anche programmi per lo sviluppo del digitale nelle scuole e nelle università. Inoltre stiamo lavorando anche per mettere in contatto chi fa impresa innovativa in Italia con società europee che hanno avuto successo a livello internazionale. Una delle possibili iniziative a cui sto lavorando è portare il Founders Forum[ff.co] (uno degli eventi più importanti e delle community più forti di imprenditori hi-tech al mondo, ndr) di Londra in Italia”.
Come mai questo rinnovato interesse per l’Italia dopo 16 anni di impresa all’estero?
“Sono italiano, amo l’Italia e voglio fare qualcosa per l’Italia”.
Che possibilità c’è che tu possa tornare in Italia?
“Mi piacerebbe molto, l’Italia è un paese stupendo”.
Dopo l’exit di novembre 2015 avete lanciato un fondo di investimento in startup, Sweet Capital. Che strategia di investimento state seguendo?
“Sweet Capital è un piccolo fondo creato dai fondatori di King per investire in startup. Noi investiamo in cose che capiamo. Investiamo nel settore mobile consumer. Ma con delle eccezioni, perché abbiamo investito anche in un seggiolino smart per bambini (Mifold, ndr) creato da una startup israeliana. Vogliamo investire in persone che ci piacciono, che abbiano idee innovative e che possiamo aiutare a crescere. Ma non investiamo in giochi per evitare conflitto di interessi”.