L’Università Bocconi ha pubblicato uno studio sugli investimenti in startup in Italia. Ma secondo noi non è una fotografia del tutto corretta, per tre ragioni almeno
I venture capital investono solo nel 5% delle startup, titola oggi (venerdì 16 settembre) Il Sole 24 Ore. Non solo. Ad investire sono più propensi gli industriali, che hanno messo soldi nel 31% delle startup. Delle startup iscritte al registro delle imprese, bisognerebbe dire. Il che basterebbe a cambiare un po’ la percezione del fenomeno. Per la precisione di 3.179 startup prese in esame da uno studio condotto dall’Università Bocconi di Milano. La notizia è rimbalzata subito su buona parte dei giornali di settore. Ma a freddo ci è sorto qualche dubbio.
I dati sono relativi ai bilanci d’esercizio del 2014. Non tutte le società iscritte hanno depositato il bilancio nel 2015, dice al Sole Carmelo Cennamo, il docente che guida il gruppo di ricercatori che ha redatto lo studio. Dall’analisi dei bilanci sono stati individuati 149 milioni di euro investiti. 93 milioni in capitale, 56 milioni in debito.
La maggior parte dei finanziamenti finisce in poche startup, denuncia lo studio. L’89% di questi soldi va ad un quarto di loro. Il 95% ha almeno un socio. Il 5,1% ha un investimento da parte di venture. Il 31% ha una società tra i soci. Vale a dire altre aziende. Il 43% ha un bilancio in utile. Ma in media il risultato netto è negativo di 23mila euro. Il 41,5% ha chiesto i soldi alle banche. Buona parte di queste hanno un gruppo industriale all’interno. Il 32% di queste startup sono aziende manifatturiere.
Lo studio ha sicuramente la sua utilità nel cercare di mettere un’ordine nella marea di dati sulle startup che abbiamo a disposizione. Ma secondo il nostro osservatorio ci sono almeno tre punti che a nostro avviso rischiano di dare un’immagine distorta. Disclaimer: non vogliamo dire che abbiamo un’industria del venture florida, i numeri sono quelli che sono in termini assoluti. Ma in termini relativi potrebbero essere altrimenti.
1. I venture non investirebbero mai quelle aziende
Il primo è che l’analisi dei bilanci delle società iscritte al registro delle startup innovative è una base di partenza forse un po’ fuorviante quando parliamo di venture business. In quel registro, bussola utile e imprescindibile per tastare il polso di società innovative, ci sono anche aziende che delle “startup” in senso proprio («startup is a business that scale», usiamo sempre questa definizione di Paul Graham come faro) hanno davvero poco. Società di consulenza, gestori di social media, piccole aziende che magari hanno poco di “sclabile”.
Perché è importante saperlo? Perché difficilmente un venture capital che tiene al suo portafoglio ci metterebbe dei soldi. I venture generalmente investono in business ad alta potenzialità di scalare per garantire un ritorno al fondo.
2. Qualcosa non torna sul peso reale dei fondi venture
Il secondo. Gli investimenti presi in esame ammontano a 149 milioni di euro. Quelli mappati dai maggiori monitor degli investimenti in startup (il Venture capital monitor e il rapporto Who Is Who di Italia Startup) raccontano di circa 118 milioni di euro investiti. Di questi circa 64 vengono da operatori di venture capital. Il resto da business angels e acceleratori. Non vengono mappati gli investimenti di altre società, il che potrebbe spiegare il gap.
Ma qualcosa nelle due proporzioni non torna. Altro spunto: stando ai dati in nostro possesso, delle 40 principali operazioni di investimento fatte in startup nel solo 2016, più della metà sono state fatte da fondi e operatori di venture capital (23) il resto se lo dividono business angels, acceleratori e incubatori (6) e aziende private (11). Ci chiediamo: possibile che la situazione possa cambiare così tanto in due anni?
3. L’imbuto del venture capital
Il terzo, e in questo caso riportiamo un ragionamento condiviso a caldo con Gianmarco Carnovale, ceo di Scuter e presidente di Roma Startup. Considerate il venture business come un imbuto. Quello raccontato in questa infografica, per esempio. Di una grossa pletora di startup presenti in Italia (sono seimila oggi), è piuttosto pacifico che solo poche arrivino prima a prendere i soldi dei business angels, family offices, incubatori e acceleratori (quelli che nello studio potrebbero essere rappresentati sia come soci, che come aziende), e poi quelle dei venture.
L’imbuto va a stringersi. Il venture investe quando il business è scalabile e consolidato. Mentre nel registro delle startup ci sono tantissime aziende al loro primo bilancio di esercizio.
Arcangelo Rociola
@arcamasilum