C’erano una volta i giornali. Se anziché una (piccola) inchiesta questa fosse solo un’opinione camuffata da notizia, probabilmente non ci sarebbe “attacco” migliore. E invece i giornali (e le radio, e le televisioni) ci sono ancora, hanno cambiato pelle e da quando esiste internet, ma soprattutto i social network, sono attraversati quotidianamente dalla trasformazione digitale. Proprio come i governi, le aziende e il singolo cittadino. C’è chi si è fatto trovare pronto, chi è arrivato un po’ più tardi.
Come cambia l’informazione da quando c’è Internet
Certo, sul futuro della carta stampata nel giro di un lustro ne abbiamo sentite di ogni genere. Pensiamo, su tutti, a quel direttore non di un giornaletto di quartiere ma addirittura di un’istituzione, il New York Times, quando disse che presto il suo giornale non avrebbe stampato più neanche una copia, restando disponibile solo nell’edizione online. Di contro, in Italia, il papà del più grande imprenditore del settore televisivo in Italia, l’ex premier Silvio Berlusconi, ha ammesso non più di 3 anni fa, a proposito di Internet, «non conosco il mezzo».
E ogni tanto, a chi non conosce il mezzo, nell’era digitale si aggiunge chi per suo mestiere dovrebbe “leggere” la realtà e non ci riesce più. Pensiamo, a esempio, ai sondaggisti che non hanno “visto” alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 l’enorme crescita dei consensi, maturati soprattutto online, del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Il problema però non è solo di chi fa i sondaggi (e dei politici), ma anche della nostra categoria, quella dei giornali e dei giornalisti. Sia quando è stato sottovalutato l’impatto del web e dei social nella creazione e diffusione delle notizie, sia quando, proprio a causa dei nuovi mezzi di comunicazione, il rischio di prendere un granchio è dietro l’angolo. Anche per le testate più autorevoli.
Dal contenitore al contenuto
C’è stato un punto in cui, prima ancora di Facebook e Twitter, un po’ per motivazioni “politiche”, un po’ perché proprio con Internet il lettore/utente è divenuto esso stesso non solo fruitore di informazioni ma diffusore e, soprattutto, creatore di informazioni. In principio fu Indymedia (ve lo ricordate?) e, poco più avanti si consolidò l’epoca del cosiddetto citizen journalism. Tant’è che oggi, capita spesso che le prime immagini di cronaca, incidenti, eventi sismici e atmosferici, sono quelle realizzate con uno smartphone. I cittadini, insomma, arrivano prima dei giornalisti.
E i contenuti hanno sottratto sempre più spazio ai contenitori: non conta dove esce una notizia, dove si parla di un fatto, conta invece “cosa ci dicono” quella notizia o quel fatto. E soprattutto quanto, prima ancora della sua qualità, l’immediatezza di quel contenuto riesce a generare il cosiddetto “engagement”, divenendo poi, grazie alla potenza di fuoco dei social network, virale.
Questa pluralità di strumenti di creazione e diffusione di contenuti porta con sé evidentemente anche una serie di problemi, primo su tutti la verifica della veridicità delle fonti. Tant’è che una delle parole più utilizzate in questi ultimi mesi è “post-verità“. Non sta a noi prendere parte tra chi dice che il web ha favorito la vittoria o la sconfitta di questo o quel politico, di questo o quel referendum. È un lavoro per i sociologi e chi studia queste cose.
Facebook e (o è?) il futuro dei giornali
Noi però possiamo e dobbiamo necessariamente aprire un ragionamento sul futuro del nostro mestiere. Diventa importante farlo nel momento in cui i big della Silicon Valley diventano (anche) media company. come nel caso di Facebook. Ultimo, solo in ordine di tempo, uno dei suoi founders più discussi, Mark Zuckerberg, ha infatti promesso un giro di vite contro le bufale, ventilando apertamente il coinvolgimento di grandi editori e giornalisti in team locali e globali per il controllo della veridicità delle notizie diffuse su Facebook (e pagandoli, direttamente e indirettamente). Per questo con tutti coloro i quali facciamo questo mestiere forse dovremmo iniziare ad occuparcene. Non solo per il futuro e la libertà del nostro lavoro, ma a beneficio di chi quotidianamente ci legge.
Ecco perché abbiamo pensato, accanto allo studio (e alla spiegazione) delle potenzialità e dei possibili problemi di un mercato in continua evoluzione, di aprire uno spazio di confronto anche e soprattutto con le altre testate. Iniziamo da due pesi massimi del giornalismo digitale italiano: Peter Gomez, direttore de ilfattoquotidianoit, e Jacopo Tondelli, direttore de Gli Stati Generali. (A proposito, leggerete questo passaggio, più o meno letteralmente, in molte delle interviste che pubblichiamo e pubblicheremo).
Mia “cara” pubblicità, iniziamo a parlarne
Al centro del dibattito un convitato di pietra. Il tema dei temi intorno al quale tutto ruota anche se pochi ne parlano apertamente: il business della pubblicità. Ecco, forse è ancora troppo presto per capire se i contenuti contano (e conteranno) più dei contenitori, però possiamo dirvi (e dimostrarvi) che c’è un mercato, che fa numeri, e tanti, sia in termini di fatturato che di lettori. Un mercato fatto di giornali e blog che già oggi vivono senza pubblicità e banner, perché sono essi stessi la pubblicità: si chiama native advertising, e brand journalism. Grandi aziende che, non solo per ragioni di marketing e/o di social responsability, scelgono di adottare nuove strategie di posizionamento editoriale sponsorizzando un blog o una testata sia interna che esterna all’azienda. Non è solo pubblicità, e sarebbe banale ridurlo solo a questo. E i primi esperimenti ci sono anche in Italia (questo giornale è un esempio di brand journalism ad esempio).
“Don’t tell, show”, dice una delle regole base del buon giornalista. È quello che, nel nostro piccolo, abbiamo provato a fare con questo speciale. Che auspichiamo diventi un luogo di informazione e condivisione costante per noi, per i colleghi delle altre testate, e, soprattutto per chi ci legge.
INTERVISTE
– Gomez (ilFattoQuotidiano.it): «Perché Facebook non può dare un bollino blu alle notizie. I commenti? Più pericolosi delle bufale» (Pecora)
ANALISI
– La pubblicità non basta: media (tech) company e nuovi modelli per salvare il giornalismo (Fiore)
LAVORO
– Professione: creatore di contenuti. Quanto guadagna davvero chi scrive per il web (Donadio)
MODELLI
– Viaggio tra i giornali e blog italiani senza pubblicità (perché sono la pubblicità) (Perinetti)