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Pechino non si ferma e rincara la dose: dopo la cacciata di tutte le mining farm dal proprio territorio nei mesi scorsi, la Cina ha definito illegali tutte le transazioni con criptovalute. A esporsi in maniera così drastica è stata la Banca Centrale, preoccupata rispetto a bitcoin e a tutti quegli asset digitali che, come si legge su TechCrunch, minerebbero la stabilità interna. L’obiettivo dichiarato della dittatura comunista è “mantenere l’ordine economico, finanziario e sociale”. Mentre scriviamo bitcoin sta perdendo quasi 5%, ma è decisamente troppo presto per sapere se l’impatto delle scelte cinesi sarà o meno di lungo periodo sul valore della criptomoneta più famosa del mondo.

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Nelle scorse settimane bitcoin era tornato sopra la cifra dei 50mila dollari e, come riporta la stampa di settore, c’è chi ancora ipotizza che il 2021 potrebbe chiudersi con un nuovo record: 100mila dollari. Restando però sulla cronaca, l’atteggiamento di Xi Jinping e del potere cinese in generale nei confronti del settore crypto si può spiegare in vari modi. Da una parte Pechino sta seguendo la propria strada verso la sostenibilità e minare bitcoin viene ancora vista come un’attività troppo inquinante (sul tema il dibattito è molto aperto a livello internazionale); dall’altra c’è pure una evidente questione del controllo centrale che, in Cina, non può tollerare un’autonomia così ampia per i bitcoiner e miner sul fronte economico-finanziario.

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Il giro di vite in corso in Cina – crackdown – sta investendo buona parte del settore tecnologico. Non dimentichiamoci le recenti decisioni unilaterali del paese per contrastare l’utilizzo eccessivo dei videogiochi e dei social network da parte dei giovanissimi e dei bambini. E questo è soltanto uno dei tanti esempi dai quali emerge quanto il potere centrale stia alzando la voce contro le Big Tech. Per quanto riguarda bitcoin e le altre criptovalute, il crescente interesse a livello globale e il volume degli affari in crescita suscita senz’altro preoccupazione a Pechino.

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