L’azienda ha dichiarato di voler ridurre di 1700 tonnellate le emissioni di CO2 e risparmiare 18.000 metri cubi di acqua
Il 50% di plastica in meno nelle nuove bottiglie blu di Parmalat e un risparmio annuale di 600 tonnellate di plastica. Puroblu e Zymil sono i due brand dell’azienda emiliana interessati dal progetto di economia circolare che si prefigge di ridurre, entro marzo 2020, di circa 1.700 tonnellate le emissioni di CO2 nell’aria (la quantità assorbita da 69.000 alberi).
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E anche il consumo di acqua diminuirebbe di 18.000 metri cubi: tre volte quanto quella contenuta nell’acquario di Genova, secondo quanto affermato dall’Università di Parma, che ha condotto un’analisi sull’impatto ambientale del progetto.
Le nuove bottiglie green di Parmalat
Parmalat ha voluto cominciare la sua campagna green dalle bottiglie di Zymil, il latte ad alta digeribilità, e Puroblu, il latte microfiltrato, che da questo mese saranno prodotte utilizzando il 50% di plastica riciclata al fine di creare un circuito virtuoso “bottle to bottle” (“da bottiglia a bottiglia”).
Ma l’azienda ha dichiarato di essere impegnata in un percorso di trasformazione di tutta la plastica prodotta, pertanto l’iniziativa è la rampa di lancio verso una sempre maggiore ricerca della sostenibilità.
“Con le nuove bottiglie, Parmalat non solo risponde alla direttiva europea sulla plastica monouso, che prevede, entro il 2030, l’obbligo per tutte le bottiglie di contenere il 30% di materiale riciclato, ma ne anticipa i tempi, proponendosi un obiettivo ben maggiore”, ha commentato Giovanni Pomella, direttore generale di Parmalat Italia.
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Parmalat, per le bottiglie blu, ha ottenuto il marchio “Plastica Seconda Vita Food”: la certificazione ambientale riconosciuta dall’Istituto Italiano dei Plastici, che verifica la filiera produttiva, dalla tracciabilità della materia prima all’imballaggio, per garantire al consumatore origine e sicurezza del packaging.
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Plastica: quanta ne consumiamo in Italia e nel mondo?
L’Italia “vanta” il primato europeo per il consumo di bottiglie di acqua in plastica. Nonostante il Belpaese sia geograficamente molto piccolo rispetto ad altre nazioni, si classifica addirittura secondo a livello mondiale per quantità di plastica consumata per dissetarsi (in pole position c’è il Messico). Ma come mai? Gli italiani bevono troppo?
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Questo primato stupisce, specie se si considera la quantità di sorgenti naturali presenti sul territorio. Come evidenziato da Legambiente nel dossier “Acque in bottiglia 2018”, per le aziende che imbottigliano, la scelta italiana è oro che cola, con un business che si aggira intorno ai 10 miliardi di euro all’anno. Tutto questo, a fronte di canoni di prelievo dalle fonti ridicoli, che al massimo arrivano a 2 millesimi di euro al litro. Un vero e proprio affare.
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Sono ancora in molti, sempre secondo Legambiente, a pensare che l’acqua imbottigliata sia migliore e più controllata di quella del rubinetto. Alla base c’è, quindi, soprattutto una ragione culturale che spinge tanti concittadini a preferire la plastica.
Ma torniamo ai numeri. Secondo una stima pubblicata dal WWF nel 2018, la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 a più di 310 milioni. Ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare e, ad oggi, si stima che più di 150 milioni di tonnellate si trovino negli oceani. Dagli anni Cinquanta del secolo scorso, con l’avvio della grande diffusione dell’utilizzo della plastica, abbiamo prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, buttandone in natura circa 6,3 miliardi (come se ogni abitante della Terra trascinasse con se circa una tonnellata di plastica).
Il 79% di questa plastica è finita in discarica e in tutti gli ambienti naturali, mentre il 12% è stato incenerito e solo il 9% riciclato.
Le ricerche condotte da Ocean Conservancy evidenziano come quasi l’80% dei rifiuti di plastica nell’oceano derivi da immondizia prodotta sulla terraferma e giunta in mare soprattutto via fiume, e la produzione del 60% di questi può essere imputata a Paesi del Sud-Est asiatico.
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Inquinamento dei mari e salute
Quali sono le conseguenze dell’inquinamento marino sull’uomo? Il rapporto diffuso a febbraio di quest’anno dal CIEL (Center for International Environmental Law) dal titolo “Plastic & Health” evidenzia quanto la plastica ponga a rischio la salute umana in qualsiasi fase del ciclo di vita: dalla testa di pozzo alla raffineria; dagli scaffali agli esseri umani; dallo smaltimento agli inquinanti atmosferici e alla plastica diffusa negli oceani.
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Le microplastiche, come frammenti e fibre, a causa delle loro piccole dimensioni possono entrare nel corpo umano attraverso il contatto, l’ingestione o l’inalazione. In più, riescono a penetrare nei tessuti e nelle cellule e rilasciare sostanze chimiche pericolose.
Ma c’è ancora tanta strada da fare per ripulire i nostri mari. New York, dal 1° gennaio 2019, ha bandito l’utilizzo di contenitori realizzati in polistirolo e schiuma ad uso alimentare. Ancora più recente è la decisione, da parte di 30 multinazionali, di costituire la Alliance to end plastic waste con l’obiettivo di destinare nei prossimi cinque anni 1,5 miliardi di dollari alla lotta contro i rifiuti di plastica dispersi nell’ambiente. Ma per sconfiggere questo problema globale resta fondamentale capire a livello individuale quanto sia importante, quotidianamente, impegnarsi nella lotta all’inquinamento.