Intervista a Selene Biffi, che da Mogadiscio ha lanciato Loudemy, il chatbot che smentisce le fake news sui social con informazioni, dati e video
Descrivere in poche parole Selene Biffi è arduo. È una maestra che a Kabul ha insegnato ai ragazzi a scrivere, comunicare e lavorare usando il racconto delle storie, è una imprenditrice sociale che è stata chiamata dall’ONU per avviare un incubatore di imprese innovative in Somalia, ed è una startupper che ha appena lanciato Loudemy, una piattaforma contro le fake news. Ma soprattutto è una donna infaticabile la cui vita sembra essere stata guidata dalla volontà di cambiare in meglio il mondo intorno a sé.
Laureata in International Economics and Management all’Università Bocconi, ha preso un Master in International Humanitarian Action in Irlanda, e frequentato la Singularity University. Mentre studiava, pensava già al mondo della social innovation: “A 22 anni e con 150 euro ho lanciato la mia prima startup sociale, Youth Action for Change, una piattaforma online di corsi peer-to-peer per giovani, in ambiti legati allo sviluppo locale. Era il 2005, ancora non si parlava di e-learning, e Youth Action for Change si impose a livello internazionale come esempio di innovazione, tanto da meritare un posto nel report annuale della Banca Mondiale e oltre 30 premi”. Da quella prima startup in poi, l’innovazione sociale sarebbe diventata definitivamente il suo mondo: a cominciare dalla scuola di storytelling lanciata a Kabul, in Afghanistan, fino alla sua ultima avventura, in Somalia: “Da maggio vivo a Mogadiscio dove le Nazioni Unite mi hanno proposto di venire ad insegnare il mio lavoro ad aspiranti imprenditori sociali e aprire un incubatore a supporto delle startup locali”.
Cominciamo con l’Afghanistan. Cosa l’ha portata a Kabul?
«Nel 2009 ero stata chiamata dall’ONU per una consulenza relativa alla stesura di un sussidiario per le zone rurali. Appena arrivata in Afghanistan, mi misi subito al lavoro e notai che, da lì a poco, si sarebbe tenuto il secondo turno delle elezioni presidenziali. Avendo avuto una piccola esperienza come osservatrice elettorale, decisi di fare domande anche io e di cambiare lavoro, cosa che non successe mai in quanto la mia domanda venne rifiutata sette volte. Ci rimasi abbastanza male ma continuai comunque a lavorare sul sussidiario, non sapendo che, in qualche modo, la cosa mi avrebbe salvato la vita: il 28 ottobre 2009 un commando Talebano fece irruzione nell’unica pensione ONU dove dormivano gli osservatori elettorali, e undici persone rimasero uccise quel giorno, incluse due mie colleghe. Venni evacuata con il resto dello staff, ma tre settimane più tardi ero già di ritorno a Kabul per finire il mio sussidiario. Terminato il contratto, decisi di lasciare le Nazioni Unite e impiegai i miei risparmi per lanciare in Italia la onlus Plain Ink (www.plainink.org), che utilizza fumetti, storie e libri per aiutare bambini e comunità a trovare le proprie soluzioni a problemi locali legati alla povertà e all’esclusione sociale».
Le storie sarebbero state l’elemento che poi l’avrebbe fatta tornare in Afghanistan.
«Sì, tre anni dopo essermene andata, nel 2013, ho rifiutato tre offerte di seggio alle elezioni parlamentari in Italia e sono volata alla volta di Kabul per realizzare il mio sogno: aprire la Qessa Academy, una scuola tecnica unica nel suo genere, dove ragazzi e ragazze disoccupati imparano a utilizzare le storie per trasmettere messaggi tecnici di sviluppo locale, dalla salute pubblica alla mitigazione dei disastri naturali, dalla sicurezza alimentare ai diritti umani nell’Islam (dopo quasi quarant’anni di guerra, 8 persone su 10 sono analfabete in Afghanistan, e le storie diventano quindi un veicolo privilegiato per insegnare). Qessa aprirà a breve le sue porte per il quarto anno di corso».
La storia della sua scuola l’ha raccontata nel libro “La maestra di Kabul”. Quali sono le caratteristiche di un insegnante in un contesto così difficile?
«Essere un insegnante in Afghanistan è il lavoro peggiore che si possa scegliere, insieme a quello di poliziotto. Non solo perché mal retribuiti – un insegnante di una scuola pubblica prende 30 dollari al mese, un chirurgo 80, in un luogo dove l’economia di guerra fa salire i prezzi di ogni cose alle stelle, come gli affitti sui 6,000 euro e simili – ma perché pericolosi, dato che gli attacchi a scuole o check point di polizia sono ormai frequenti. Ogni insegnante di Qessa – sette in tutto – ha grande passione per il proprio lavoro, grande professionalità e la voglia di dare a tanti ragazzi e ragazze disoccupate una possibilità per immaginare un Afghanistan differente».
È stato difficile trovare il personale?
«Qessa offre materie in tre aree di riferimento, come Storytelling (scrittura creativa, teatro e storytelling tradizionale), Sviluppo Locale (salute pubblica, ambiente e diritti umani nell’Islam) e Inglese. Trovare gli insegnanti non è stato semplice, visto che la scuola non ha grandi mezzi a disposizione – terminati i proventi dei premi, mantengo la scuola aperta con quanto mi guadagno come consulente – e la sicurezza è sempre un’incognita per tutto il nostro personale, interamente locale».
Passiamo al suo lavoro attuale in Africa. Come si fa a lanciare un incubatore di startup in Somalia?
«Lanciare un incubatore per startup sociali a Mogadiscio non può essere visto che per quello che è: un progetto unico nel suo genere, una sfida sia in termini di apertura dello stesso che di ecosistema che va creato dal basso quasi da zero. Lavoro nell’ambito dell’innovazione e dell’imprenditoria sociale da quindici anni ormai, e la parte che preferisco del mio lavoro è iniziare qualcosa da zero e farlo crescere. A febbraio sono stata contattata dall’ONU su Facebook, dopo che alcuni funzionari avevano sentito parlare del mio lavoro a Kabul e mi hanno offerto l’occasione di venire a replicare il mio lavoro anche qui.
Siamo nelle fasi iniziali dell’incubatore al momento, e giornalmente sono alle prese con la formazione rivolta ad aspiranti imprenditori che vivono nei campi di sfollati
la messa a punto di un edificio e la creazione di un network a supporto, tra mentori, finanziatori e imprese locali. L’incubatore verrà lanciato a breve, e aiuterà a far nascere e crescere oltre 300 startup sociali in ambiti quali energie rinnovabili, salute, agricoltura, acqua e telecomunicazioni».
In che cosa consiste Loudemy, la startup che ha lanciato dalla Somalia?
«Loudemy è una piattaforma che aiuta a costruire chatbot intelligenti per trasformare ogni conversazione online in un’opportunità di dialogo, informazione e cambiamento sociale. L’idea è nata l’anno scorso in Afghanistan: a luglio 2016 ci fu un grave attentato e quel giorno passai parecchie ore sui social e online assistendo a commenti pieni di odio, reazioni inconsulte, falsità di ogni tipo sull’Afghanistan, la situazione in cui versava e la guerra che interessava il paese. Cominciai a rispondere a tutti quelli che potevo, provando a far capire la complessità di un contesto come quello afgano, ma non potevo ovviamente stare dietro a tutti i commenti; da qui l’idea poter automatizzare la cosa».
Quindi un chatbot anti bufale?
«Sì, i chatbot di Loudemy vengono attivati ogni volta che incontrano parole e concetti negativi, notizie infondate e intolleranza, attraverso un’analisi del testo della conversazione e l’intenzione. I chatbot intervengono poi in automatico postando commenti con dati e informazioni utili a stemperare i toni e creare dialogo su un vasto numero di argomenti attuali, dai diritti umani al cambiamento climatico, dalla politica alla tolleranza religiosa, e molti altri ancora.
A differenza di quanto si trova già online, Loudemy non blocca gli utenti, non segnala contenuti inappropriati e non cancella i commenti di altri, ma offre invece informazioni alternative attraverso testi scritti, file audio, immagini e video.
Come funziona?
«È sufficiente registrarsi, scegliere gli argomenti che più stanno a cuore, selezionare le fonti pubbliche e neutrali che i chatbot utilizzeranno – presi da organizzazioni internazionali, istituti di ricerca, istituzioni di vario tipo – e collegare Loudemy ai social. Il nostro algoritmo si occupa poi del resto, permettendo agli utenti di contribuire a conversazioni online su social quali Facebook, Twitter, Instagram e Youtube, per iniziare».
Come ha formato il team?
«Ho iniziato a mettere insieme un team di sviluppatori verso dicembre, ma non è stato facile trovare quelli giusti: non si trattava di sviluppare chatbot per un “servizio clienti”, ma creare qualcosa di unico, che potesse partecipare in maniera indipendente alle conversazioni sui social e intervenire sulle tematiche più disparate. Non solo: avevo anche un problema di risorse economiche. Dovevo coprire i costi di sviluppo. Mi sono autofinanziata con 20 mila euro. Ho cercato sviluppatori tra Italia, India, Portogallo, Svizzera. Li ho trovati a Padova: Adriano e Davide. A febbraio abbiamo cominciato a sviluppare l’algoritmo. A giugno siamo partiti con la versione beta».
La piattaforma è solo in italiano oppure saranno previste delle versioni in altre lingue?
«La piattaforma è al momento disponibile in Italiano e Inglese, con lingue quali Francese e Spagnolo in uscita prossimamente. Oltre a queste, l’algoritmo è al momento in grado di analizzare il contenuto e il tono di conversazioni in oltre 20 lingue diverse».
Qual è il business model?
«Loudemy è al momento disponibile sia in versione gratuita che in versione Pro su abbonamento, pensato per organizzazioni, enti di ricerca, associazioni e media. Nella versione Pro la piattaforma è totalmente personalizzabile in termini di lingua del chatbot, delle fonti da utilizzare – comprese fonti interne come report, dati o comunicati stampa – e del tono che il chatbot utilizzerà».
Pensa di ritornare in Italia in futuro?
«Aldilà del mio lavoro in Somalia e dell’incubatore, ho ancora moltissimi progetti che vorrei realizzare, iniziando dalla piattaforma Loudemy. Ho in mente al momento anche un’app per l’apprendimento linguistico e un modello di micro-cliniche per i Paesi emergenti, tra gli altri. Tornerei volentieri in Italia se ci fosse modo di avere supporto – finanziario, in primis – per il mio lavoro. Ad oggi però, continuo dall’estero, con la speranza di tornare ad offrire le mie competenze anche in Italia un giorno».