L’analisi bisettimanale, curata dalla startup innovativa Storyword, sui temi che hanno tenuto banco sulla stampa estera durante i 14 giorni appena trascorsi
Uno dei temi più delicati e dibattuti in occasione della COP28, che quest’anno ha visto i leader riuniti negli Emirati Arabi, è senza dubbio la disinformazione sulla crisi climatica. Secondo un rapporto pubblicato di recente sul New York Times, tra le principali fonti di fake news sul clima ci sono proprio le nazioni più influenti, tra cui Russia e Cina, i cui diplomatici partecipano al vertice, insieme ad aziende che estraggono combustibili fossili e gruppi di persone che guadagnano condividendo teorie che descrivono il riscaldamento globale come una bufala. Le fake news riguardano principalmente la negazione del ruolo umano nel cambiamento climatico e teorie cospirative varie: i recenti incendi boschivi sono stati causati da incendi dolosi piuttosto che da condizioni più calde e secche; il mondo si sta raffreddando; i giganti del petrolio e del gas stanno percorrendo la strada verso le emissioni zero. Secondo gli esperti, queste teorie hanno già avuto un impatto significativo sull’opinione pubblica e l’interesse politico di prevenire un futuro disastroso per il pianeta. Risulta sempre più chiaro come la disinformazione sia legata a interessi di Paesi, aziende e persone con diverse agende, ma unite nel voler screditare la minaccia del cambiamento climatico. E il fatto che gli Emirati Arabi, che ospitano la COP28, sono uno tra i più grandi esportatori di petrolio, ne è una dimostrazione.
Servono più moderatori
Prosegue la guerra in Medio Oriente e con questa continuano le polemiche e le ostilità anche sui social media che, come già accaduto in precedenza con il conflitto tra Russia e Ucraina, sono costantemente accusati di offrire verità fuorvianti sul conflitto e su ciò che è accaduto il 7 ottobre in Israele. Come evidenziato dal Time, nonostante le piattaforme come TikTok, che in queste settimane è al centro di una crisi reputazionale negli USA proprio in merito alla diffusione di disinformazione, affermano di aver rafforzato il proprio impegno nella moderazione dei contenuti rimuovendo milioni di video che promuovono incitamento all’odio, terrorismo e disinformazione, i team dei moderatori non riescono a tenere il passo con l’enorme volume di fake news che in alcuni casi raggiungono milioni di visualizzazioni. Secondo Jeff Horwitz del Wall Street Journal, anche Meta sta incontrando ostacoli nella moderazione dei contenuti: gli strumenti automatizzati su Instagram hanno a lungo faticato ad analizzare diversi dialetti arabi, arrivando a censurare contenuti innocui e facendosi invece sfuggire messaggi di odio. In risposta a questi incidenti, Meta è stata costretta a scusarsi per i problemi di traduzione e ha riconosciuto che stanno lavorando per migliorare i propri algoritmi. Anche X, l’ex Twitter, non è immune da queste problematiche e infatti, secondo NewsGuard, profili “verificati” con la spunta blu producono un sorprendente 74% delle affermazioni false e infondate più virali della piattaforma. Ad ogni conflitto bellico, culturale o politico che nasce dobbiamo ormai essere consapevoli che gran parte di queste lotte vengono combattute sui social, indistintamente dal ruolo e dalla preparazione delle persone coinvolte. Se ne discute da anni ma la situazione non sembra cambiare.
Aggiungi un posto a tavola
La saga di OpenAI ha messo in evidenza quanto sia importante la comunicazione corporate. Una pessima comunicazione rivolta dall’ex consiglio di amministrazione ai propri stakeholder (dipendenti, investitori, media, etc.) ha quasi causato l’implosione dell’azienda per averla esposta a gravi rischi e danni reputazionali irreparabili. Da questo episodio, come racconta Axios, è anche emersa la necessità di avere la figura del comunicatore all’interno dei board. Gli amministratori sono consapevoli non solo del valore della reputazione e della comunicazione che la rafforza e protegge, ma anche del ruolo di quest’ultima nell’aumentare il peso della compagnia nei mercati globali. Nonostante questa consapevolezza, secondo un recente rapporto di Spencer Stuart solo 16 chief communications officer siedono nei consigli di amministrazione delle società Fortune 500.
Gli amici della Cina
I 26 milioni di follower cinesi di Jerry Kowal non sono un caso. L’influencer americano sa bene quali messaggi diffondere perché fa parte di un gruppo di oltre 120 creator stranieri che Pechino ha arruolato per contrastare le narrazioni dell’Occidente. Si tratta, secondo un report dell’Australian Strategic Policy Institute, di una strategia di “market-enabled propaganda production likely to have significant implications for the global information landscape”. L’aumento degli influencer stranieri in Cina ha coinciso negli ultimi tre anni con la decisione del Partito Comunista di espellere alcuni giornalisti dei principali media internazionali e di limitare gli accreditamenti. Dai video pubblicati emerge uno schema semplice e preciso: da un lato elogiare tutto ciò che è cinese, dal governo alla cultura, passando per cibo e infrastrutture; dall’altro, criticare aspramente i media e la società occidentali. Nella maggior parte dei casi, gli influencer stranieri non ricevono istruzioni dettagliate su cosa produrre da parte dell’apparato mediatico statale. Ma la loro creatività deve fare i conti con incentivi e controlli tramite cui i funzionari cinesi monitorano questi soggetti. Secondo una fonte anonima, “Se non dicono cose positive sulla Cina o su quanto gli piace stare qui, questi influencer stranieri non saranno in grado di guadagnare popolarità in Cina. Né acquisiranno alcun valore commerciale”. Segnala tuttavia il Financial Times che non sempre questi creator hanno successo: quando toccano temi delicati come la politica zero-Covid, spesso vanno incontro a critiche da parte dei cittadini locali.
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