Quale futuro per il branded entertainment? Il mercato è cresciuto del +264% e oggi si interroga sulla propria identità. Per il longform domenicale pubblichiamo un estratto dell’intervento di Laura Corbetta, Presidente dell’Osservatorio Branded Entertainment, pronunciato all’OBE Summit 2023
In questi anni il branded entertainment è passato dall’essere un prodotto di comunicazione a un vero e proprio framework strategico utilizzato dai brand per “connettersi” alle proprie audience grazie a narrazioni transmediali di “valore”. Come Associazione abbiamo lavorato assieme, pur essendo espressione di tanti interessi diversi, nel dare linee guida al mercato, creare know-how, fornire metodologie e strumenti di analisi e di valutazione. Abbiamo lavorato sulla formazione delle persone. La diversità, l’equità e l’inclusione sono diventati per noi acceleratori di trasformazione culturale. Mai come in questi ultimi mesi, abbiamo intensificato la collaborazione con le altre grandi associazioni del mercato per affrontare in maniera seria e decisa il tema delle molestie di genere sui luoghi di lavoro (il me too della pubblicità italiana, come è stato ribattezzato dai media). E, più in generale, per contribuire a un cambiamento culturale in cui la violenza sulle donne non sia più all’ordine del giorno. È definitivamente arrivato il momento di prenderci cura delle persone che lavorano nel nostro settore, spesso trascurate o stratificate in tempi, modalità e linguaggi non più adeguati alle sensibilità contemporanee. Quelle stesse persone alle quali ogni giorno chiediamo di analizzare e interpretare scenari e tendenze e creare messaggi di valore.
Serve una trasformazione culturale
Sono trascorsi 10 anni durante i quali si sono verificati eventi epocali di portata globale con effetti profondi sulla storia, sulla società e sulla cultura ma, anche, sulla nostra quotidianità, sul nostro modo di lavorare e, forse, ancor di più sulla nostra visione del mondo e della vita. Il mercato del branded entertainment è cresciuto, dal 2014 al 2022, del 264% raggiungendo volumi di investimento quasi equivalenti alla somma di radio, cinema e OOH. Nel frattempo il mondo digitale nel quale trascorriamo ormai gran parte del nostro tempo, ha radicato dimensioni virtuali “informatizzate” che sempre più ci stanno allontanando dalla realtà delle cose. Come scrive uno dei più severi critici della nostra contemporaneità: «Corriamo dietro alle informazioni senza approdare ad alcun sapere, prendiamo nota di tutto senza imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vere esperienze. Comunichiamo ininterrottamente senza prendere parte a una comunità. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro. Così le informazioni generano un modo di vivere privo di tenuta e di durata». In questi anni, ci siamo così ritrovate a essere persone più fragili, disorientate ma, al tempo stesso, una maggiore consapevolezza, ci ha reso persone più impegnate e responsabili del nostro futuro.
Ma quale futuro? Le ricerche ci dicono che il Business rappresenta l’istituzione alla quale le italiane e gli italiani guardano con maggiore fiducia riconoscendo, soprattutto alle aziende familiari, più competenze ed etica di ONG, Media e Governo. Consumatori e dipendenti spingono le aziende a schierarsi a loro favore. E chiedono un maggiore coinvolgimento su tematiche sociali concrete e “politiche” come il cambiamento climatico, la crisi energetica, la sicurezza sanitaria, l’equità sociale. Secondo l’ultimo Edelman Trust Report, sei persone su dieci ritengono che le aziende devono attivare il potere iconico dei propri brand per creare identità condivise in grado di unire e rinforzare il tessuto sociale e culturale del nostro Paese, con azioni mirate alla sostenibilità delle persone e dell’ambiente, alla formazione e cura dei propri dipendenti, alla collaborazione con le comunità locali e con le istituzioni pubbliche per una società più giusta, equa e solidale. Ma devono anche prestare maggiore attenzione alla comunicazione, garantendo lo sviluppo di un sistema di informazione più trasparente, affidabile e significativo.
Bisogna schierarsi
Mai come ora, le aziende e le persone che le guidano – per continuare a essere rilevanti e competitive – devono agire quella trasformazione culturale che allinea il dentro e il fuori, l’alto e il basso, le persone e il business. Che guarda al presente sentendo la responsabilità del futuro. The Passion Economy vuole essere un’ipotesi di lavoro per affrontare questa sfida: mettere al centro del modello di crescita e sviluppo delle persone e delle aziende le proprie passioni. Sembra stravagante, ma è la passione che alimenta l’innovazione, la creatività e la determinazione umana: spinge le persone a superare i propri limiti, ad abbracciare il cambiamento, a sviluppare empatia e a creare un impatto significativo sulla società. La passione è però una prassi impegnativa, che impone energia, concretezza, autenticità, persistenza. Come la verità, la fiducia, le promesse e le responsabilità. Sono prassi impegnative perché richiedono uno sguardo lungo e lento che, estendendosi oltre il presente, si proietta nel futuro. La passione si racconta in una storia, e le storie sono il super-potere dei brand. Come scrive Adam Davidson, pioniere della Passion Economy: «Qualunque cosa tu venda, stai vendendo una storia, ed è meglio che sia autentica. È una storia e, come tutte le belle storie, ha personaggi, una trama, un inizio, una fine e anche un po’ di drama. Il processo di creazione di valore – quella misura soggettiva di come un certo prodotto o servizio migliora la vita delle persone – richiede un investimento di sforzi e capitali che generalmente si ripaga solo nel tempo». Ed è per questo che sempre più spesso solo companies with passion can change the world for better.