L’intervista a Roberto Della Marina, Founder di Venture Factory. Ha lavorato al CERN di Ginevra e poi all’Olivetti a Ivrea. Nel 2017 un nuovo capitolo della sua vita. Settima puntata della nostra rubrica alla scoperta dei protagonisti dell’ecosistema VC
Un altro venture capitalist, un altro ex ricercatore. Nel nostro percorso alla scoperta dell’ecosistema VC italiano ci pare proprio di aver rintracciato una caratteristica tutt’altro che di nicchia. Chi potrà mai lavorare in un fondo? Persone che hanno fatto studi in ambito economico, magari con un passato da imprenditori seriali. E invece sempre più spesso ci ritroviamo a dialogare con scienziati prestati all’innovazione. Anzi, votati ad essa. Roberto Della Marina, Founder e Managing Partner di Venture Factory, è il protagonista della settimana puntata del nostro format. Friulano d’origine, studi in Fisica a Trieste, un lavoro al CERN dell’acceleratore di particelle a Ginevra, è diventato (e ancora si sente) un olivettiano. «A Ivrea ho trascorso anni straordinari».
Dal CERN al VC
Nel settore del venture capital non sempre chi sceglie di allocare risorse deve per forza essere più esperto dei founder o Ceo che andrà a finanziare. Parlare però la stessa lingua aiuta. «In Venture Factory sei persone su sette hanno un Phd. Questo tratto nel settore early stage e tech transfer, che è ciò di cui ci occupiamo, è un fattore abilitante. Con i ricercatori dialoghi da pari a pari». Nel corso della sua vita Della Marina ha avuto modo di proseguire a lungo il proprio lavoro di ricercatore, imparando a conoscere il settore sia dal fronte del privato, sia del pubblico.
«In Italia siamo bravissimi a fare ricerca, ma siamo molto scarsi nel tradurre la spesa di ricerca in un investimento». Dal nord est, con una laurea in Fisica, Della Marina si è spostato in Svizzera nei primi anni Novanta, dove oltre al CERN ha avuto anche modo di fare un dottorato all’ETH di Zurigo. «Sono stati anni in cui ho avuto il privilegio di lavorare all’interno di team composti da geni», ci racconta. All’estero ha avuto anche modo di misurarsi con un primo ruolo manageriale, quando ha dovuto gestire lo spin off di un centro di ricerca svizzero specializzato in nanotecnologie che sfruttavano il silicio.
Mente svizzera, etica latina
Un decennio in Svizzera lo ha formato, lo ha abituato a ragionare secondo una mentalità efficiente o, come si direbbe, quadrata. Il ritorno in Italia, all’inizio del nuovo millennio, ha significato l’ingresso in un pezzo di storia economica, sociale e industriale del nostro Paese. Della Marina ha avuto la responsabilità di gestire l’innovazione tecnologica del gruppo Olivetti per tutti i prodotti non core. «Mi occupavo di sensori di pressione per pneumatici, lavoravamo con Pirelli; oppure di giroscopi. La stessa fabbrica che faceva le testine per stampanti ospitava altri device».
La gloria di un tempo era senz’altro lontana. Nell’immediato secondo dopoguerra la Olivetti ha in effetti scritto pagine indelebili non soltanto per quanto riguarda l’innovazione italiana, ma anche per via dell’etica fortunatamente sopravvissuta al suo ideatore. «Due cose mi hanno segnato nella vita: il rigore svizzero e un’etica tanto latina quanto moderna a Ivrea». Dopo Olivetti Della Marina è tornato nella sua Trieste dove ha guidato un distretto dell’innovazione con l’ambizione di diventare un centro per cervelli e tecnologie.
L’incontro con il mondo del Venture Capital nel 2010 ha chiuso il cerchio. Sentendosi ancora uno scienziato, una persona che ragiona da ricercatore, Della Marina ha un’opinione molto chiara rispetto alla propria professione di VC. «È il più bel mestiere per una persona come me. Non è retorica: lavorando nel privato e nel pubblico ho capito che la finanza è un catalizzatore per la ricerca e che i soldi vanno intesi come commodity. A me interessa il processo di innovazione». Nel 2017 ha fondato Venture Factory, che oggi ha in portafolio società deep tech, fatte salire a bordo in fase molto early, quando il TRL è a 3.
Dieci anni: tanti o pochi?
I tempi della ricerca, si sa, sono lunghi. Ma nel momento in cui una potenziale innovazione esce dai laboratori per affrontare la strada tortuosa del business ai founder è richiesta una puntualità, è il caso di dire, svizzera. Per la precisione, 10 anni. Parliamo del tempo standard per i fondi di venture capital che prima cercano le startup più promettenti per poi finanziarle, farle crescere e infine venderle. Potrebbe sembrare un periodo più che sufficiente. E invece.
«È una sfida, perché partendo così presto è come aver dei neonati e devi far sì che diventino maggiorenni, capaci di farsi notare. Più dell’80% delle exit nel mondo VC riguarda operazioni di M&A». Al momento Venture Factory si occupa soltanto di startup deeptech, con un’eccezione nel biotech. In portfolio troviamo anche Relicta, la startup sarda dell’anno che ha vinto a SIOS23 Sardinia (a proposito, domani 27 giugno c’è SIOS23 Summer a Roma: qui trovate i biglietti).
In un momento storico pieno di incertezze, con alle spalle un semestre pieno di turbolenze (citiamo il fallimento della Silicon Valley Bank che ha spaventato l’ecosistema), che partita sta giocando l’Italia? «Noto che il modello dell’innovazione italiano è figlio di una cultura artigianale, in cui si fa molto, ma lo si mostra davvero poco all’esterno. Siamo reticenti a svelare quel che sappiamo fare». Motivo in più per evitare sogni vanagloriosi di replica della Silicon Valley lungo lo Stivale. Meglio concentrarsi su quel che si ha, sulle innovazioni e sui talenti che vantiamo in casa. «Quando ci confrontiamo con l’estero spesso non siamo secondi a nessuno».