In un’Italia in cui il mercato dell’economia circolare vale 15 miliardi di euro, l’agroalimentare è tra i settori più attrattivi per investimenti innovativi e sostenibili. Lo dimostrano realtà come Isuschem, Vérabuccia ed Rcoffee, che del recupero di materie prime mirano a fare un business
Ultima tappa del nostro viaggio tra le startup del Food, durato ben due mesi. Tra gli obiettivi cruciali che l’Italia si prefigge di raggiungere a livello sia nazionale – nell’ambito del Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) – che europeo e globale, vi sono senza dubbio l’economia circolare e il suo impatto sull’ambiente, la sostenibilità. La cosiddetta Green economy ha nel riciclo dei rifiuti e nel tentativo di dare loro una seconda vita un tratto del proprio Dna e il nostro Paese è in prima linea per la rigenerazione e il riutilizzo degli scarti. Lo dicono i dati. Secondo la relazione generale del 2023 del Consorzio Nazionale Imballaggi (Conai), l’anno scorso 10 milioni e 400mila imballaggi hanno avuto una seconda vita con un recupero pari al 71,5%. L’Italia ha così superato sia gli obiettivi che l’Europa chiede ai suoi Stati entro il 2025 – quando ogni Paese dovrà riciclare almeno il 65% degli imballaggi ogni anno – sia quelli per il 2030, quando l’asticella si alzerà al 70%. Nel dettaglio, sono state recuperate 418mila tonnellate di acciaio, 60mila di alluminio, 4 milioni e 311mila di carta, 2 milioni e 147mila di legno, un milione e 122mila di plastica e bioplastica, 2 milioni e 293mila di vetro. Sommando ai numeri del riciclo quelli del recupero energetico, il totale di imballaggi recuperati sale a 11 milioni e 700mila tonnellate, pari all’80,5% dell’immesso al consumo.
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L’economia circolare in Italia
Risultati virtuosi, coerenti con l’andamento del mercato dell’economia circolare e delle startup attive nel settore. Il primo – stando al report stilato nel 2023 dall’Osservatorio Circular Economy di Energy&Strategy del Politecnico di Milano – in Italia vale circa 15 miliardi di euro. Quanto alle startup che vi operano, sono 212, 126 delle quali hanno ricevuto finanziamenti sostanziali nel 2022, prevalentemente nel Nord Italia, per un totale di 142 milioni di euro. I settori che attraggono più investimenti per soluzioni innovative e circolari sono l’energia – che ha raccolto 62 milioni di euro – e l’agroalimentare (35 milioni di euro). Quest’ultimo risulta anche il comparto con il maggior numero di finanziamenti (20, su 40 startup totali), seguito dal tessile (17, su 32).
La seconda vita dell’olio
Che sempre più imprese decidano di investire sul binomio Food Sustainability lo dimostrano tre startup emergenti che hanno accettato la sfida di dare nuova vita agli scarti alimentari. La prima si chiama Isuschem (acronimo di Italian Sustainable Chemistry) e nasce nel 2020 dall’iniziativa del ceo Vincenzo Benessere, 40 anni, una laurea e poi un dottorato in Chimica all’Università Federico II di Napoli.
Anni di studio e lavoro nell’ambito della conversione degli oli vegetali di scarto sono valsi al ricercatore di Pompei e ai suoi colleghi un brevetto per produrre fino a 200 tonnellate annue di inchiostro a partire da un derivato dell’olio esausto. Nasce così Isuschem, attiva a tutti gli effetti dal 2023: «Il nostro impianto si trova a Caserta – spiega Vincenzo – ed è in grado di produrre un materiale che può essere applicato in vari settori: dall’inchiostro a stampa utilizzato per il packaging alimentare al biolubrificante per motori di automobili, navi e aerei, fino ai cosmetici». Come? «Acquistiamo dalle grandi aziende un derivato dell’olio di scarto a cui aggiungiamo un additivo riciclabile che utilizziamo fino a 15 volte per trasformare il materiale di partenza in una sostanza oleosa da impiegare in vari modi».
E qui, nel recupero del “catalizzatore” fondamentale per produrre inchiostri e lubrificanti a partire dall’olio esausto, sta il primo contributo di Isuschem alla sostenibilità ambientale ed economica. «I nostri competitor in genere sfruttano l’additivo chimico una volta soltanto, mentre noi arriviamo anche a 15 utilizzi, in un processo che non inquina e non produce scarti», sottolinea Vincenzo. Green economy e circolarità si intrecciano in un processo che viene incontro in misura significativa alle esigenze del mercato. La domanda d’inchiostro a livello europeo, oggi, è di un milione di tonnellate l’anno, di cui solo 250.000 vengono sintetizzate a partire da oli vegetali. Isuschem, che già prevede di produrre fino a 200 tonnellate annue di materiale, punta a 2.500 nel 2028, arrivando a coprire il 3% del mercato complessivo di bio-ingredienti.
«Attualmente il 70% della nostra attività riguarda inchiostri da stampa e il 30% biolubrificanti per motori», spiega il ceo della startup. «I cosmetici sono in fase di validazione da parte del dipartimento di Farmacia della Federico II e di altri partner industriali e prevediamo di entrare nel mercato anche con loro nel 2024». L’inchiostro da stampa viene impiegato per il packaging alimentare di carta e cartone (confezioni di pandoro e panettone, scatole per il caffè) e «rende il pacco finale più sostenibile sia a livello alimentare che ambientale: essendo composto di materiali non inquinanti, riduce la produzione di CO2 nell’atmosfera», precisa Vincenzo. Quanto ai biolubrificanti, trattandosi di derivati dell’olio, presentano materia prima non rinnovabile in quantità assai ridotta, limitando drasticamente l’impatto sul territorio. Proprio come accade per i prodotti di cosmesi, ottenuti sostituendo i derivati degli oli di palma e di soia con altri additivi. «Grazie a questi – continua lo startupper – otteniamo risultati notevoli, ad esempio, con le tinture per capelli, che mantengono doppiamente il colore rispetto ai normali cosmetici. Anche le creme protettive guadagnano in qualità grazie ai nostri additivi chimici che, sciogliendo i filtri solari all’interno del prodotto, lo rendono molto più adatto alla pelle».
Ma l’obiettivo di fare completamente a meno del petrolio come materia prima nei processi produttivi è ancora lontano e Vincenzo, insieme ai suoi otto soci, sta già lavorando allo sviluppo di altri due ingredienti, sempre a partire dagli oli vegetali di scarto: i mangimi per animali e i coloranti per i tessuti, settori in cui, assicura, la ricerca è già molto avanti. Intanto Isuschem sta per concludere un percorso di accelerazione con Terra Next, il primo acceleratore in Italia per startup e PMI innovative operanti nella Bioeconomia. Lo fa dopo aver chiuso il 2022 con 35.000 di utili, raddoppiati nel 2023 (70.000) e avendo già 250.000 euro di contratti firmati per ordini di inchiostri da stampa e biolubrificanti per il 2024. «Siamo molto contenti, ma non abbiamo intenzione di fermarci», ribadisce Vincenzo: «Non ci interessa il greenwashing, ma costruire un paradigma produttivo diverso, basato sulle risorse rinnovabili. Per noi non esistono scarti, ma solo nuove possibilità».
La rinascita della buccia d’ananas
Convinzione, questa, che ha ispirato anche il progetto di Francesca Nori, 29 anni e Fabrizio Moiani, 32, fondatori di Vérabuccia. Nome che «identifica un innovativo e circolare processo produttivo, brevettato, per creare nuovi materiali bio-based dalla buccia della frutta, senza sottrarre nuove colture alla catena alimentare o generare altri scarti», spiega Francesca, a cui si deve l’intuizione di un progetto che mira a far rivivere la scorza del frutto esotico per eccellenza, l’ananas. «Nel 2018 sono riuscita a mettere in pratica l’idea grazie al supporto di un’azienda chimica italiana: è nata così Ananasse, una pelle ecosostenibile salvata dalla decomposizione senza aver trasformato esteticamente il prodotto vegetale di partenza – la buccia dell’ananas – ma avendone mantenuta la texture inimitabile».
Un processo di chimica organica agisce sull’involucro del frutto preso nel momento in cui viene separato dalla polpa, prima che intervenga il processo di decomposizione con relative emissioni nell’aria. «Raccogliamo l’ananas presso alberghi e aziende del settore HO.RE.CA – racconta Francesca – e nei mercati della grande distribuzione ortofrutticola della nostra zona (Bracciano, Lazio, ndr). A pieno regime, lavoriamo con circa 50 kg di buccia». Il processo che ne fa una pelle sostenibile dura circa una settimana e la rigenera letteralmente, rendendola «flessibile, imputrescibile, stabile nel tempo e anche morbida al tatto», sottolinea la startupper.
Il risultato sono dei “fogli” di pelle 100% naturale, destinati a essere rifilati, pressati e, infine, assemblati tra loro in modo da ricavare pannelli di varie dimensioni da consegnare ai clienti. «Finora abbiamo recuperato 1.000 kg di buccia, che hanno dato vita a un numero incalcolabile di fogli di Ananasse», spiega Francesca: «Una parte di questi è stata utilizzata per realizzare i nostri prototipi, borse e scarpe in particolare; un’altra è stata consegnata gratuitamente alle aziende interessate e un’ultima conservata per nuovi studi con enti di ricerca. Puntiamo a entrare nel mercato entro la fine dell’anno».
E senza porre limiti alle “nuove vite” della buccia d’ananas. «Dopo la moda e il settore accessori, vogliamo arrivare al design d’interni, ad applicare cioè il nostro prodotto a superfici come pavimenti e piastrelle», conclude Francesca, che è convinta: «Vérabuccia® può essere un valore aggiunto decisivo per le aziende che lavorano l’ananas: daremo loro la possibilità di salvarne lo scarto più grande, ma anche il meno utilizzato perché non commestibile». Più economia circolare di così?
Pellet dal caffè
La terza e ultima startup che mira a ridare dignità alla materia prima seconda si chiama Rcoffee e nasce durante una pausa caffè tra colleghi universitari. Arash Moazenchi, Matteo Villani e Marco Oliva, tutti e tre classe 2001, studiano Economia e Giurisprudenza all’università di Roma Tor Vergata e sono partiti da una sfida: riuscire a riciclare i fondi di caffè. «Sia quello in grani che quello della capsula esausta», sottolinea Arash, amministratore unico di Rcoffee. «Dopo aver vagliato varie tipologie di riutilizzo, ci siamo imbattuti in una piccola realtà del Nord Italia, oggi fallita, che anni fa realizzava il pellet a partire dagli scarti del caffè».
Lì l’illuminazione: produrre una biomassa per le stufe delle case. «Ci siamo messi subito all’opera» – racconta Arash – «affittando un macchinario industriale per la produzione di massa. Il processo è articolato in più step». Il primo prevede l’essiccazione del caffè a cui si aggiunge una piccolissima percentuale di segatura riciclata di legno vergine. Il secondo, la pellettizzazione del materiale ottenuto, ovvero il suo compattamento tramite pellettatrice che, per estrusione, emette la biomassa vera e propria. Con la terza e ultima fase il pellet viene passato al setaccio per eliminare i residui di polvere. Raffreddato e imbustato, è infine pronto per la vendita.
«Finora le consegne gratuite che abbiamo fatto sono andate molto bene», assicura Arash. «Collaboriamo con sei società e puntiamo ai primi incassi già dal 2024, arrivando a cifre importanti (300.000 euro di utili) nel 2027 e, ancor più, nel 2028 (740.000)». I vantaggi di un pellet 100% ecologico, ricavato dal fondo del caffè, non sono pochi: «In termini di prezzo d’acquisto siamo in linea con i competitors, con la differenza che riusciamo a rendere gli ambienti fino al 15% più caldi rispetto a quanto farebbe il pellet tradizionale, perché il nostro ha un potere calorifico maggiore».
Un progetto sostenibile per tutti gli attori della filiera, dagli acquirenti ai venditori, fino ai produttori: «Entro l’inverno del 2024 dovremmo riuscire a riciclare fino a 400 tonnellate di fondi di caffè», sostiene Arash. Che, insieme ai colleghi, pensa già a nuove forme di recupero del chicco tostato: «Non ci fermeremo alle biomasse, ma cercheremo di realizzare più prodotti possibili, esportando il business anche fuori dall’Italia». La “coffemania”, si sa, non conosce confini.