Studia tanto e tutto andrà bene. Se lavori come si deve avrai i soldi per comprare casa. La politica si occuperà dei giovani… Insomma, fai la tua parte e ne avrai tutti i vantaggi! E, invece, niente c’era di vero: quando è stato il tempo di capitalizzare le promesse, ormai le risorse erano evaporate, le visioni mutate, le promesse, appunto, scemate in illusioni rivelatesi, alla lunga, bugie. Beniamino Pagliaro, classe 1987, giornalista e caporedattore di Repubblica e fondatore di Good Morning Italia, in un recente saggio ne ha messe in fila sette di bugie, sette bugie che sono state raccontate dai più adulti, i Boomers, ai Millennials e che i Millennials hanno a lungo bevuto per ritrovarsi, alla fine, al palo. E c’è allora più di una una ragione se i giovani non mettono su famiglia o lo fanno tardissimo e a investimento ridotto, se non comprano casa pur desiderandolo, se hanno gettato via il mito della carriera, se vivono costantemente preoccupati, se vedono la pensione come prospettiva ingannevole, se sono la prima generazione più povera dei loro padri e delle loro madri. Beniamino Pagliaro passa le sette bugie sotto la lente di ingrandimento dell’analisi di realtà: lo fa nel saggio Boomers contro Millennials, 7 bugie sul futuro e come iniziare a cambiare (HarperCollins), nel quale porta a galla tutta la disillusione di una generazione che si sente tradita, ma al contempo si adopera per superare l’oramai palesato conflitto Boomers/Millennials e per avviare, invece, un dialogo concreto che costruisca soluzioni. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Sette bugie radiografate in maniera netta e senza sconti. Quali sono le più feroci che il mondo ha raccontato ai Millennials?
Per come la vedo io, quella che dice “Studia e avrai un futuro”: attraverso la retorica dello studio, ha trasmesso la convinzione che tutto o molto fosse a portata di mano, facendo danni a un’intera generazione e forse a due. La narrativa con cui sono cresciuti i Millennials era quella di studiare più dei propri genitori, imparare almeno due lingue straniere, riempire il cv di esperienze… Poi si sono accorti che il vicino di scrivania, Boomer, guadagnava il triplo, ha potuto comprare casa quando serviva, serenamente mettere su famiglia, e loro no. L’altra bugia, ancora più odiosa, è quella secondo la quale le cose non possono cambiare: è una menzogna, perché sappiamo tutti che cambiare richiede sostanzialmente risorse e bisogna desiderare di metterle in campo. La pandemia ha reso visibile a tutti che in situazioni complesse le risorse si trovano, ed egualmente ha fatto il provvedimento del Superbonus, la misura boomer per eccellenza perché destinata a chi una casa ce l’ha già: si è bellamente ignorato che ci sono due generazioni di giovani che una casa non l’avrà mai, se non ereditandola. Perché c’è una bella differenza di sviluppo di vita ad avere una casa di proprietà a trent’anni, invece che a sessanta.
Peraltro, il tema è universale. Cito il libro: nel 1990 i boomers che avevano trentacinque anni possedevano circa il 33% del real estate americano per valore. Nel 2019 i millennials di un’età simile ne possedevano solo il 4%. Come è possibile che i più giovani non si ribellino?
Perché ognuno ha capito quanto sia vero e drammatico il problema per sé, ma non c’è stata ancora una piena elaborazione collettiva, un’assunzione generale che parta dalla consapevolezza che il problema è di tutti, che la propria storia è la storia di tutti.
È quanto è successo con il #MeToo, una consapevolezza collettiva che effettivamente ha accelerato in tutto il mondo la mobilitazione contro le discriminazioni di genere.
Assolutamente sì. Io lo noto anche nelle reazioni al libro: diversi giovani mi scrivono di riconoscersi nei racconti che fa il libro, scoprendo di non essere soli. Riconoscendosi nelle statistiche e nelle storie degli altri, acquisiscono quella consapevolezza che nella quotidianità sfuggono perché troppo impegnati a risolvere le plurime emergenze di vita che il presente procura. Una volta che trovano lavoro, ritengono che il tema del precariato sia risolto; appena trovano casa, ritengono che quella partita, pur faticosamente, sia chiusa… Superata una difficoltà, sono chiamati ad affrontare la successiva. Questo rincorrere soluzioni tiene lontani dal prendere consapevolezza che le disuguaglianze generazionali, allargandosi, superano la quotidianità di ciascuno e rappresentano sempre più un tema politico, che la politica non vuole affrontare.
In sintesi, perché non vuole farlo?
Diciamo, in estrema sintesi, che in primo luogo le generazioni più giovani sono minori per numero e dunque meno interessanti delle altre per chi desidera farsi eleggere.
Nel libro parli di Sindrome dell’impostore, un’attitudine che associ ai Millennials, i quali sembrano non sentirsi pienamente legittimati a occupare uno spazio o rivendicarne di ulteriori. Quasi che non sentissero di meritarlo. Da dove nasce questo senso di inadeguatezza?
La nostra società ha una sorta di ossequio verso il passato, verso la tradizione, verso ciò che è sempre stato. Tende più a conservare che a costruire cose nuove. Un clima così scoraggia chiunque porti il nuovo. Le aziende sveglie, quelle che vogliono stare con successo sul mercato hanno capito il tema da parecchio tempo: e, infatti, sono affamate di giovani professionisti. Fanno di tutto per accaparrarseli e, poi, per non farseli scappare.
Quest’autunno risentiamo parlare di pensioni, mentre gli under 35 a 1000 euro al mese non trovano spazio in nessuna agenda, da quella politica a quella mediatica. Cosa dovrebbe accadere perché finalmente cessi questa indifferenza nociva?
Una presa di conoscenza netta da parte di tutti, la capacità di giudicare i fatti. I temi generazionali devono entrare nettamente nell’agenda politica, deve essere chiaro a tutti i decisori che così non funziona e bisogna scegliere decisori politici in grado di occuparsene. Bisogna che di tutti gli atti decisi dalle amministrazioni sia calcolato l’impatto che hanno sulle generazioni. Occorre cominciare a credere che l’Italia debba essere un Paese anche per i giovani. In un Paese con salari bassissimi e dove dal 1995 al 2019 la produttività da lavoro è cresciuta dello 0,3% contro la media dell’Unione europea dell’1,6%, è necessario poi che nelle aziende il sistema di premialità dei compensi non sia basato solo sull’anzianità, ma sui risultati, sulle capacità, sul merito. Non possiamo più permetterci l’inerzia, questo lasciare tutto come è sempre stato: il Covid ha ridisegnato i modelli del lavoro, le città, le abitudini dimostrando che siamo capaci di cambiare, e velocemente, se siamo costretti. Anche un sano conflitto generazionale può essere la soluzione: non più contro i Boomers, dunque, ma contro l’inerzia, per provare a costruire di nuovo.