Ti proteggerò… dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
… ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore
e guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale
ed io, avrò cura di te
Franco Battiato, La cura
Beh, l’overture musicale era d’obbligo.
Si potevano scegliere anche altri spunti: La cura del tempo, per esempio, dei Negramaro, o Abbi cura di me di Simone Cristicchi, o la speculare Abbi cura di te di Levante. O un pezzo a caso dei The Cure (magari non proprio Lullaby, in cui Robert Smith racconta delle ninne nanne che suo padre gli cantava, tutte con finale terrificante, cose del tipo «dormi adesso, bel bambino, o non ti sveglierai mai più»).
Si poteva partire alla grande con They Don’t Care About Us, dove Michael Jackson – sempre impegnato sul piano sociale, fin dal progetto We Are The World sulla fame in Africa (1985) – vuol far sentire al pubblico la voce di una comunità che non ha nome. Persone vittime di violenze, soprusi e maltrattamenti da parte di autorità senza volto. Potente inno contro il razzismo, dove il re del pop sfodera la sua voce più rigida, con le urla di bambini che alternano protesta e supplica, e un testo brutale, scandito dal grido martellante
All I wanna say is that they don’t really care about us
Calcano la mano due super-videoclip, entrambi diretti da Spike Lee, uno ambientato in un carcere, con esplicite scene di violenza, l’altro in una degradata favela brasiliana.
Ma la scelta è andata su Battiato. Anche solo per affetto. E anche perché in quella canzone è già espressa tutta l’ambivalenza della parola “cura”.
Ambivalenza già nel nome
L’ambivalenza (o l’ambiguità, come abbiamo già ragionato qui in un altro articolo), è una parola spesso associata a concetti negativi, ma che può avere un valore costruttivo.
E allora prendiamola in mano, questa parola, “cura”. Anzi, prendiamola nelle due mani: due sillabe, di due lettere ciascuna. Sta già lì il senso della duplicità, del doppio, forse anche del dubbio.
Dal latino cura, certo. Alcuni etimologisti creativi ci vedono cor, il cuore, e addirittura la formula quia cor urat = perché scalda/consuma il cuore; altri la radice sanscrita KU, o KAU, > osservare, stare in guardia (cautus). Siamo quindi sulla sollecitudine, la vigilanza diligente e assidua, l’assistenza premurosa.
E già vi si colgono i due impulsi presenti nella parola: quello del riguardo, dell’interessamento attento e sollecito, ma anche quello della preoccupazione e dell’affanno.
E possiamo scorgere altri doppi dentro il significato.
C’è ciò che gli inglesi chiamano cure, ossia la cura medica delle malattie, offerta dalle professioni sanitarie dispensando farmaci, diete o esercizi fisici, e poi c’è il care, inteso come benessere emotivo, relazionale.
Nell’ambito del cure, possiamo anche distinguere l’attenzione specifica alla patologia e l’attenzione alla persona.
Nell’ambito del care, c’è il customer care, ossia il supporto di servizio che banche, compagnie assicurative o telefoniche, piattaforme di commercio elettronico e perfino le istituzioni pubbliche s’impegnano a offrire a clienti e cittadini; e poi c’è l’employee care, il people care, che le aziende rivolgono alle proprie persone con i programmi di sviluppo professionale. Ne abbiamo visti fiorire molti anche nei mesi della pandemia, con mantra come “abbiate cura di voi stessi”, o “abbiamo cura di voi”, volti a consolidare la resilienza e la fiducia nel futuro.
C’è poi anche il doppio verso dell’azione, attiva e passiva, del dare e dell’avere: e così chiamiamo care-giver – che sia professionista di sanità o persona amica, o vicina, o di famiglia – la persona che fornisce assistenza e supporto a un’altra persona che non è in grado di prendersi cura di se stessa, a causa di età, malattia, disabilità o altre circostanze.
E c’è persino il doppio senso del “dare cura a qualcuno” e del “dare/affidare qualcuno alla cura di qualcun altro”, come fa pensare il recente caso di Enea, il bambino lasciato dalla madre, appena partorito, alla “culla per la vita” del Policlinico, suscitando molti (troppi?) commenti e iniziative di taglio paternalistico (già, paternalistico, alle solite).
Forse amore?
Persino se stringiamo sull’accezione positiva di cura, quella dell’attenzione, del riguardo, possiamo intravedere altri due aspetti. Spiegano gli autori del sito Una parola al giorno:
Aver cura significa avere a che fare. L’attenzione, anche diligente, può essere una registrazione squisitamente meccanica e chiusa, come un occuparsi. La cura invece non solo si interessa, ma partecipa. Questo si vede quando hai cura di me, ma anche quando faccio un lavoro con cura, quando sarà mia cura avvisarti. Non è mero meticoloso zelo. L’aver cura può accompagnare in libertà, nel disporsi alla scelta di possibilità autentiche, e può farlo guidato dalla sensibilità propria, dalle rivelazioni dell’empatia. È un concetto senza sinonimi (forse, in una certa misura, potrebbe esserlo amore?).
Dal mito latino: Cura = ansia
L’avevano già capito i poeti. Foscolo, fra tutti:
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta
In morte del fratello Giovanni
Ma fu poi la filosofia esistenzialista, con Heidegger, a chiamare Cura l’ansia, l’inquietudine esistenziale, riprendendo il mito latino di Cura, che con gli altri dèi plasmò dal fango l’essere umano e ottenne di possederlo per tutta la sua vita.
Secondo il mito, un giorno, attraversando un fiume, Cura si mise a modellare il fango argilloso e ne trasse una figura umana. Sopraggiunto Giove, la dea gli chiese d’infondere spirito vitale nella scultura, e Giove acconsentì. Cura allora pretese d’imporle il proprio nome, ma lo stesso voleva Giove, e la disputa si complicò quando la stessa pretesa fu avanzata dalla Terra, che poteva vantare di aver fornito l’ingrediente essenziale. Con l’arbitrato di Saturno, dopo la morte della creatura a Giove sarebbe toccato il possesso dell’anima, alla Terra quello del corpo, ma ad accompagnarla in tutta la vita sarebbe stata proprio Cura, la sua plasmatrice, con tutto il suo carico d’Inquietudine.
Associata nel mondo antico all’angoscia, la Cura sarebbe dunque il continuo movimento dell’anima verso il futuro, la struttura stessa dell’agire umano, lo spasmodico e frettoloso prendersi cura delle proprie ansie. Quando sappiamo, invece, che cura è anche sapersi aspettare
But each lover’s steps fall so differently
I’ll wait for you, and if I should fall behind, wait for me
Bruce Springsteen, if I should fall behind
Prima il “care”, poi il “cure”
Dizionario Treccani:
- Cura: 1 > a) interessamento solerte e premuroso per …; b) riguardo, attenzione; c) impegno, zelo, diligenza; d) l’attività in cui si è direttamente impegnati; e) oggetto costante dei propri pensieri;
- Cura: 2 > a) complesso dei mezzi terapeutici e delle precauzioni mediche…; b) uso continuato di un rimedio…; c) l’opera prestata dai medici per guarire un ammalato.
Dizionario De Mauro:
- Cura: 1) Interessamento premuroso e sollecito, impegno, diligenza, attività, occupazione;
2) Insieme dei rimedi usati per guarire da una malattia, terapia, rimedio.
Dizionario Utet-Gradit:
Persino nel verbo, dove potrebbe prevalere il senso dell’agire terapeutico-sanitario:
- Curare: 1) fare oggetto di cure, seguire con premura e interesse nei dettagli;
- Curare: 2) sottoporre a cure mediche e trattamenti necessari alla guarigione.
Insomma i principali dizionari mettono al primo posto la persona, e dopo la malattia.
Com’è, allora, che pare così difficile questo concetto? Persino in quella parte della medicina che sta più vicina all’anima che al corpo.
Spiega Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’ospedale di Novara e docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’Università di Milano: «Noi medici diamo troppa importanza al sapere, troppo poca alle emozioni»(*).
«Per noi è centrale la capacità di mettersi il relazione con i pazienti, costruire un’atmosfera di fiducia, far loro capire che sentiamo il loro dolore. Tutti i medici dovrebbero avere la percezione sanguinante degli aspetti psicologici della malattia. Si dà un’importanza spropositata all’intelligenza e al saper fare, mentre dovremmo dare più valore alle antenne delle emozioni. Purtroppo la formazione psicologica dei medici in Italia è zoppicante. Perfino tra gli psichiatri non sempre c’è piena coscienza della delicatezza del primo incontro con il paziente, delle parole, del tono di voce usato, dei gesti, e di come tutto questo influenzi l’evoluzione della malattia. Eppure si è constatato che fino al 30% dell’efficacia terapeutica di un farmaco antidepressivo o di un ansiolitico è determinato dal modo in cui il medico sa presentare il farmaco, quando lo prescrive, inserendolo in un contesto psicologico.
«In ogni relazione medica – continua Borgna – è fondamentale il rispetto della persona, del suo pudore: anche le parole del chirurgo o del cardiologo, seppur più scarne, devono rispettare la fragilità del paziente, che si abbandona completamente al medico. Nel formulare la diagnosi, poi, usare parole sbagliate può amplificare il dolore e compromettere la guarigione, persino avere conseguenze su tutta la vita di una persona. Il modello ancora dominante in medicina è quello naturalistico, in cui la malattia è determinata da cause biologiche che seguono il loro corso. Invece l’ambiente, e soprattutto le relazioni, sono fondamentali nell’arginare le sofferenze ».
Cure and care coaching
Cure and care coaching: la comunicazione che cura è il titolo del libro di Giuliano Mari, fisioterapista, coach e trainer di comunicazione, la cui tesi è: quando le persone soffrono di una patologia nel corpo, la mente può aiutarle molto nel processo di guarigione.
Chi svolge professioni sanitarie potrebbe (dovrebbe?) quindi associare alla propria competenza tecnica – cure – anche le tecniche di care coaching, che sviluppano una comunicazione virtuosa, in grado di ridurre le convinzioni limitanti (“non esiste una cura per me”, “sarò sempre vittima di questa malattia”…) e di produrne altre più funzionali.
Magari partendo dall’aiutare le persone che soffrono a distinguere se stesse dalla propria sofferenza. Alcune malattie, infatti, s’impossessano della vita delle persone, la riempiono, e i pazienti vi si identificano: «Sono un malato di diabete», «Sono una lombalgica cronica», «Sono una paziente oncologica», «Sono un depresso».
L’identità è una convinzione su se stessi, su chi si crede di essere. Aiutando le persone a capire che la patologia non è qualcosa che è, ma qualcosa che si ha, e che il significato di “essere malati” è ben diverso da quello di “avere una malattia” (ne abbiamo parlato in questa rubrica riflettendo sulla difficoltà di dire no o di dare cattive notizie, lo spiega qui in modo più preciso l’autore del libro, Giuliano Mari, citando i livelli logici), le persone possono trarne una maggiore fiducia in se stesse e nella possibilità di dare una cura alla propria sofferenza.
La cura della parole
Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite. Proprio per questo, diceva un filosofo, gli dei ci hanno dato una lingua e due orecchie. Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori.
È un maleducato, se parla in privato e da privato. È qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo.
Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire
È lapidario il pensiero di Tullio De Mauro, maestro della linguistica italiana, nel sito dueparole. Anche le parole hanno dunque bisogno di cura, perché hanno una grande responsabilità nel trasferire – ma anche nel generare – pensieri, significati, esperienze ed emozioni tra le persone.
È ciò che abbiamo cercato di fare fin qui in questa rubrica, da quasi due anni, guardando dentro alcune parole importanti della nostra lingua, per coglierne i valori e le sfumature, e per poterle usare con più efficacia nel nostro impegno per l’inclusione di ogni differenza. Grazie a chi ha messo un po’ della propria cura con noi, in questo sforzo, e a chi vorrà metterne in futuro.
(*) Lorena Zerbin, Quando è l’anima a sanguinare, in Il linguaggio della salute, Centopagine 2012, pag. 109