In Italia le startup con più donne che uomini nel team sono una minoranza. Molto però è stato fatto negli anni. Le aziende a impatto non possono trascurare questo tema
«La ragione per cui l’ho fatto è perché l’ecosistema del Venture Capital aveva davvero bisogno di un player inclusivo». A parlare in un’intervista alla CNBC è Serena Williams, la tennista più vincente di sempre ritiratasi pochi mesi fa. L’argomento di discussione è il suo fondo VC Serena Ventures, fondato nel 2014 quando ancora collezionava titoli Slam uno dopo l’altro. Perfino negli Stati Uniti, paese all’avanguardia sotto innumerevoli punti di vista, il gender gap è un tema da affrontare: le Ceo e le imprenditrici che lanciano un’iniziativa sono una minoranza, ancora di più tra le afroamericane (queste ultime e le donne ispaniche a guida di un’azienda hanno raccolto lo 0,05% dei capitali investiti in startup negli USA nel 2021). Meno del 10% degli amministratori delegati delle aziende di Fortune 500 è donna. Per recuperare serve dunque il contributo di tutti, oltre a una rivoluzione culturale che deve partire dalla società per abbattere stereotipi e spianare la strada a chiunque abbia talento o, semplicemente, ci voglia provare.
Su StartupItalia siamo da sempre sensibili al tema dell’imprenditoria femminile grazie alla community di Unstoppable Women, che da anni raccontiamo con articoli, interviste ed eventi. Sono talenti nel campo del gaming inclusivo, del deep tech e dell’edtech, per citare alcuni dei verticali in cui si possono incontrare storie di valore e fonti di ispirazione. L’ecosistema si sta aprendo grazie a numerose iniziative che portano l’impatto sociale come innovazione: la call for ideas di GoBeyond, che stiamo raccontando in un percorso editoriale a tappe, lanciata da Sisal nel 2014 ha proprio l’obiettivo di sostenere l’innovazione responsabile.
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Per avere una panoramica sul ruolo che le donne ricoprono nell’ecosistema italiano dell’innovazione ci appoggiamo ai rapporti trimestrali pubblicati dal MISE. Nel più aggiornato (pubblicato a luglio 2022), leggiamo che “le startup innovative con una prevalenza femminile – ossia, in cui le quote di possesso e le cariche amministrative sono detenute in maggioranza da donne – sono 1.962, il 13,4% del totale”; dallo stesso documento apprendiamo che “le startup innovative in cui almeno una donna è presente nella compagine sociale sono 6.352, il 43,4% del totale”.
I numeri sono scoraggianti, soprattutto a dieci anni dalla prima legge in Italia che ha codificato il sistema startup. D’altra parte sarebbe sbagliato negare che molto è stato fatto sull’empowerment femminile, proprio grazie ad aziende a impatto che, come ripercorrevamo in questo articolo, hanno il merito di affrontare i temi più urgenti della nostra epoca, dal contrasto ai cambiamenti climatici alla lotta contro le disuguaglianze. Non è una questione di quote obbligatorie, che andrebbero a sminuire i meriti di ciascuno e di ciascuna, bensì di accesso che deve essere più inclusivo possibile per lasciare spazio a chiunque di mettersi in gioco.
L’inclusione nell’ecosistema dell’innovazione non deve infine trascurare un altro elemento distorsivo, che ha finito col penalizzare l’imprenditoria femminile. Secondo TechCrunch, negli Stati Uniti le imprenditrici hanno raccolto il 2,4% dei capitali investiti dai vari fondi attivi. Fenomeno che si spiega con il fatto che solo il 12% dei decision maker nelle società di capitale di rischio è donna e il 65% dei fondi VC non ha nemmeno una donna tra i partner. Lo sguardo agli Stati Uniti è fondamentale perché è da lì che spesso si possono scorgere trend in arrivo.
In Italia i ritardi sull’imprenditoria femminile e in generale rispetto al gender gap non si limitano all’ecosistema startup. Valgono in tantissimi aspetti professionali, dalle PMI alle grandi aziende. Oltre a combattere stereotipi e pregiudizi, l’altra abitudine che sarebbe opportuno correggere è l’eccezionalismo esasperato, quando si raccontano le storie di donne di successo. Lo abbiamo visto nella narrazione della prima donna ad arbitrare in Serie A, Maria Sole Ferrieri Caputi, per esempio. La fortuna è che dal mondo startup, si sta rafforzando una linea diversa con imprenditori e imprenditrici interessati e interessate tanto alla crescita, quando al give back e all’impatto delle proprie attività sulle comunità. «Ho notato che negli ultimi anni c’è stata una progressiva evoluzione delle startup – ci ha detto Orfanelli di Sisal – sempre più attente ai temi dell’innovazione responsabile e orientate a generare un impatto positivo sulla collettività».