Lo scorso gennaio è entrata in vigore la direttiva Sup che vieta l’immissione sul mercato di alcuni prodotti in plastica usa e getta, come cannucce, piatti e posate. Le imprese italiane dell’agrifood come hanno accolto questa sfida? La parola a Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare
Leggera, resistente, versatile. La plastica, con i suoi innumerevoli usi, è il materiale che più di tutti ha segnato gli ultimi decenni, diventando quasi un simbolo della dirompente crescita economica e del benessere conquistato dai Paesi occidentali dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.
Ma da qualche anno è finita sul banco degli imputati. Il marine litter, ovvero l’inquinamento marino dovuto alla dispersione di rifiuti per lo più di plastica, è diventata una delle piaghe ambientali con cui dobbiamo fare i conti.
I numeri sono impietosi. Secondo il report Global Plastics Outlook pubblicato dall’Ocse, la produzione globale di rifiuti di plastica è più che raddoppiata tra il 2000 e il 2019, raggiungendo quota 353 milioni di tonnellate. Di questi, solo il 9% viene riciclato, il 19% viene incenerito, il 50% finisce in discariche controllate, mentre il 22% elude i sistemi di gestione dei rifiuti e finisce in discariche illegali oppure viene bruciato o ancora gettato nell’ambiente (soprattutto nei Paesi più poveri).
Di questo passo, stando alle stime della Ellen MacArthur Foundation, nel 2050 ci saranno più plastiche che pesci. Le immagini del Great Pacific Garbage Patch, l’isola di rifiuti in plastica più grande del mondo situata nell’oceano Pacifico, hanno fatto il giro del mondo, colpendo l’immaginario collettivo. Per non parlare di un altro problema come la dispersione nell’ambiente delle microplastiche, presenti ormai ovunque: sono state ritrovate perfino sulle vette dell’Himalaya.
L’Europa “dichiara guerra” alla plastica usa e getta
Spinta anche dalla maggiore sensibilità verso i temi ambientali da parte dei consumatori, l’onda “plastic free” è arrivata quindi fino ai palazzi di Bruxelles. La Commissione Europea si è fatta promotrice di un action plan per favorire la transizione verso l’economia circolare, fissando ambiziosi obiettivi di riciclo e chiedendo agli Stati e alle aziende di cambiare passo.
Tra le misure più importanti c’è anche la direttiva sulla plastica monouso, la famosa SUP (Single-Use Plastics), che in Italia è stata recepita lo scorso gennaio e che tra l’altro prevede il divieto di commercializzazione di una serie di prodotti in plastica monouso: cannucce, piatti, posate, contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso.
Per altri prodotti sono stati invece stabiliti stringenti obiettivi di riciclo: per esempio, per quanto riguarda le bottiglie in Pet, i Paesi membri sono chiamati a raccogliere ed avviare a riciclo il 90% di quanto immesso al consumo entro il 2029 (il target intermedio è fissato al 77% entro il 2025), e a partire dal 2025 le bottiglie di plastica dovranno contenere almeno il 25% di materiale riciclato (percentuale che salirà al 30% nel 2030).
La posizione delle imprese
Come si può facilmente intuire, tra gli osservati speciali c’è l’industria del food & beverage. Non è un caso che molte aziende si stiano indirizzando verso l’adozione di packaging più sostenibili, per esempio in carta o in bioplastica compostabile. Ma, più in generale, su questo tema l’atteggiamento dell’industria italiana è improntato a un certo realismo.
“La Direttiva SUP e il recente recepimento nazionale presenta a tutti gli operatori coinvolti delle sfide ambiziose che profilano obiettivi non scontati da raggiungere”, afferma Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare.
“La diversificazione dei materiali di imballaggio utilizzati dalle aziende alimentari rispondono non solo ai trend di consumo ma anche a precise scelte di business che devono sempre più coniugare le innovazioni di prodotto con la sostenibilità economica degli investimenti. La posizione di Federalimentare su questo aspetto è sempre stata chiara: tutti gli imballaggi sono utili e nessuna discriminazione va fatta”.
“La plastica non può essere demonizzata tout court. La causa dell’inquinamento – prosegue Vacondio – non è il materiale in sé, ma il comportamento di chi lo disperde nell’ambiente o non è in grado di implementare corretti sistemi di gestione dei rifiuti. Inoltre, si tratta di un materiale indispensabile in molti campi e particolarmente funzionale e tecnologicamente idoneo al trasporto e alla protezione degli alimenti e delle bevande dal punto di vista igienico-sanitario e della riduzione degli sprechi alimentari”.
Tra i mezzi più efficaci per favorire il riciclo dei rifiuti in plastica vengono spesso citati dalle associazioni ambientaliste (e non solo) i sistemi di deposito su cauzione, chiamati in inglese DRS (Deposit Return Systems). Funzionano? Secondo un’indagine realizzata dal Laboratorio REF Ricerche, nei Paesi in cui sono presenti tali sistemi (Nord Europa in testa) si raggiungono livelli di intercettazione degli imballaggi pari o superiori al 90%.
Ma su questo punto il presidente di Federalimentare non nasconde le sue perplessità. “In linea generale, non si è contrari a tali sistemi. Ma essi potrebbero creare dei problemi se la loro implementazione non dovesse avvenire in maniera corretta, secondo regole di buon senso che non appesantiscano troppo i prezzi per i consumatori (specie in un momento come questo dove l’inflazione ha raggiunto livelli elevati) e i costi per le imprese (già fuori controllo per l’aumento dei costi delle materie prime)”.
“Auspichiamo invece un’azione di rafforzamento e miglioramento dei regimi di responsabilità estesa del produttore e dei sistemi di gestione dei rifiuti urbani, che rendano la raccolta differenziata semplice per il consumatore e ottimale per la catena del valore del riciclo”, sostiene Vacondio.
Parola d’ordine: eco-progettazione
A prescindere dalle norme europee, è chiaro che l’economia circolare debba entrare nelle aziende dell’agrifood come asset strategico. Il primo passo da compiere, a livello di prodotto, è quello relativo all’eco-progettazione (o eco-design). Un prodotto deve cioè essere progettato in modo tale da poter mantenere il suo valore anche nel fine vita e in futuri cicli di utilizzo.
“L’eco-progettazione è una delle specifiche aree d’intervento su cui si è articolato, nell’ambito della sostenibilità ambientale, l’impegno delle aziende alimentari”, spiega Vacondio. “Un ulteriore aspetto da considerare è quello dell’impulso allo sviluppo dell’ecodesign in modo da contribuire a migliorare la possibilità di separazione delle componenti a fine vita e incrementare i tassi di recupero”.
Qualche esempio? Se la contaminazione da scarti alimentari può costituire un problema per il riciclo del packaging realizzato in plastica convenzionale, l’utilizzo delle plastiche compostabili (come il Pla) può creare nuove opportunità, perché si possono smaltire nella frazione organica e valorizzarle per la produzione di compost.
Per certi versi, l’Italia si è rivelata all’avanguardia nella lotta contro la plastica monouso (è stato il primo Paese a vietare in Europa i sacchetti di plastica) e, per usare le parole del presidente della fondazione Symbola Ermete Realacci, è una “superpotenza europea dell’economia circolare”. Come rileva Conai, il Consorzio Nazionale Imballaggi, nel 2021 in Italia è stato avviato a riciclo il 73,3% degli imballaggi immessi sul mercato.
Una sfida aggiuntiva per le aziende è quella di saper veicolare agli utenti finali informazioni chiare sullo smaltimento degli imballaggi dopo il loro utilizzo, in maniera tale da garantire loro una seconda vita attraverso il riciclo. Dal 1 gennaio 2023 verrà introdotta l’etichettatura ambientale obbligatoria per tutti gli imballaggi immessi al consumo in Italia.
“Le aziende del settore alimentare guardano con molta attenzione al tema dell’etichettatura ambientale dei prodotti”, commenta Vacondio. “Già da diversi anni hanno preceduto il legislatore fornendo in etichetta le informazioni sul conferimento dei materiali di imballaggio per una corretta raccolta differenziata e stanno valutando anche l’utilizzo delle informazioni digitali in etichetta (per esempio attraverso un QR code)”.
Per Vacondio il lavoro principale da portare avanti rimane proprio quello sulla corretta informazione dei cittadini: “è importante che le istituzioni promuovano la diffusione di una cultura del recupero e del riciclo che inizi a livello domestico, attraverso campagne di comunicazione e iniziative di sensibilizzazione”.
È il solito “bla bla bla”?
Una cosa è certa: la plastica ci farà compagnia ancora a lungo. Come abbiamo visto, sono parecchi i dubbi dell’industria. I consumatori hanno certamente un ruolo fondamentale, dal momento che sono il primo anello della catena del riciclo. Ma anche a loro è concesso avere qualche dubbio.
Diverse grandi aziende europee del settore alimentare nel recente passato si sono date in maniera volontaria dei target per limitare l’utilizzo di plastica, promettendo di aumentare per esempio la percentuale di materiale riciclato. Ma tra il dire e il fare spesso c’è di mezzo un mare (di plastica).
Da un’indagine realizzata da Deutsche Welle ed European Data Journalism Network, che ha preso in considerazione 98 impegni sulla riduzione della plastica da parte di 24 società, emerge che in oltre due terzi dei casi i risultati promessi non sono stati ottenuti oppure il mancato raggiungimento degli obiettivi non è stato comunicato.
European food & drink companies have been making many plastic commitments over the past two decades.@dwnews & @EdjNet identified 37 pledges that should have been fulfilled, & found that two-thirds of those promises have failed or been quietly dropped. https://t.co/rVRQmbF3hj pic.twitter.com/p1muFtyLfm
— Global Investigative Journalism Network (@gijn) August 19, 2022
Il rischio, evidenzia il report, è che dietro agli annunci si possa nascondere un pericoloso nemico della transizione ecologica: il greenwashing. Gli interventi normativi dovrebbero servire proprio a questo, a responsabilizzare le aziende di fronte agli impegni presi in fatto di sostenibilità ambientale.
Insomma, siamo tutti d’accordo che potenziare la raccolta differenziata sia un elemento imprescindibile per garantire il riciclo degli imballaggi, di qualunque materiale essi siano. Ma ciò potrebbe non bastare per tutelare l’ambiente.
La prevenzione, ovvero la riduzione a monte della produzione di rifiuti, rimane in cima alla cosiddetta gerarchia europea dei rifiuti. Come si traduce questo concetto nella vita di tutti giorni? Il classico esempio è rappresentato dall’utilizzo di una borraccia in materiale durevole al posto delle bottiglie di plastica.
Se i comportamenti dei singoli cittadini possono influenzare le scelte delle aziende in un’ottica di maggiore sostenibilità ambientale, solo decisioni politiche a livello globale potranno avere la capacità di porre un freno all’inquinamento da plastica in maniera davvero incisiva.
Nel luglio 2021 un gruppo di ricercatori ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Science un articolo in cui si invocava un accordo internazionale per fermare la produzione di plastica vergine entro il 2040 per il bene del pianeta. L’appello è caduto nel vuoto.