Le ‘ndrine fatturano 50 miliardi, lavorano con le criptovalute e mandano i figli nelle migliori business school mondiali
Bisognava farlo in Calabria. Anche se qui, dove le montagne lambiscono un mare da favola, tra le onde giacciono veleni e rifiuti radioattivi. Anche se, in una terra selvaggia e gravida di storia, bellezza e talento, nulla è scontato. Nemmeno la costruzione di un ospedale. Figurarsi quella di un’aula bunker.
È lungo 103 metri per una superficie totale di 3.300 metri quadri il locale approntato a tempo di record a Lametia Terme. Giusto in tempo per Rinascita – Scott, indagine che, per numeri e importanza, è seconda solo al maxiprocesso di Palermo, firmato negli anni Ottanta da Falcone e Borsellino.
Può ospitare circa mille persone tra imputati, avvocati, collegio giudicante, forze dell’ordine, spettatori e cronisti. Scrivanie ben fissate a terra e dotate di telefono, presa per pc e tutti i supporti necessari all’utilizzo dei dispositivi multimediali. Collegamenti ad alta velocità che hanno garantito la trasmissione dell’udienza contemporaneamente a centocinquanta siti riservati e località protette, mentre un sistema centralizzato di sicurezza invia eventuali segnali di allerta alle centrali operative di Carabinieri, Finanza e Polizia.
Nulla è stato lasciato al caso, nemmeno – ovviamente – le norme anti-pandemiche: ogni postazione è distanziata un metro e venti centimetri dall’altra. Dettagli che contano, se la minaccia di rinvii pende come una scure, assieme a quella della prescrizione.
Lametia, da call center ad aula bunker
Mercoledì scorso Pietro Comito, giornalista della televisione LaCTv, vent’anni nei palazzi di giustizia calabresi a occuparsi di ‘ndrangheta, era tra i banchi riservati agli inviati. Prima udienza della madre di tutti i processi, un evento epocale che, sulla stampa nazionale, è stato offuscato dai numeri del Covid e dal parapiglia sul governo messo in crisi da Renzi.
Lo raggiungiamo al telefono, in una delle rare pause. E accetta di raccontarci con gli occhi del testimone di prima mano quanto sia bello accorgersi che le cose possono funzionare anche dove la speranza cede spesso il passo alla rassegnazione.
“Si è trattato di un lavoro eccezionale, e premetto di frequentare le aule di giustizia da parecchio” confida a StartupItalia. “Nella storia di questa aula bunker ci vedo una metafora di come vanno le cose in Calabria. Ci sono ospedali che da quarant’anni attendono di essere completati. E invece, con un lavoro complesso di riconversione, è stato messo in piedi a tempo di record un sito destinato a ospitare un procedimento con oltre 300 imputati. Significa che, quando c’è la volontà, le cose possono accadere”.
L’edificio, gestito da Fondazione Terina, era destinato, in origine, a ospitare un centro di eccellenza nel settore agroalimentare, con tanto di macchinari ad altissima tecnologia. Acqua fresca, qui dove il sole, il clima e la sapienza di coltivatori e allevatori producono miracoli di gusto, ma i volumi sono ancora troppo ridotti. Il tempo si è fermato, saltando a piè pari il potenziale dell’innovazione. E dire che l’Università della Calabria continua a sfornare professionisti che, in buona parte, prendono le vie del Nord, quando non si rifugiano all’estero.
Del centro agroalimentare, come spesso accade, “non se ne fece nulla. L’area venne in parte trasformata in un call center (poi dismesso, ndr), in parte destinata a teatro (anch’esso abbandonato)”.
Fu la defunta presidente della Regione Jole Santelli ad avere l’idea di impiegarla per celebrare le udienze, quando, dopo l’operazione che portò agli arresti nel dicembre 2019, si profilò la necessità di uno spazio moderno, attrezzato e dalla capienza sufficiente a gestire un maxiprocesso in sicurezza, con tutte le garanzie del caso per i magistrati, ma anche per gli imputati e i loro difensori.
L’interno dell’aula bunker di Lamezia Terme (foto: courtesy of LaCNews24.it)
A metterci il “peso” che serviva fu il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri. Sessantadue anni, cacciatore di narcotrafficanti di fama mondiale e per questo, è il caso di dirlo, ricercato dai colleghi (e dai media) di mezzo mondo, Gratteri ha trascorso metà della vita sotto scorta, pur continuando a risiedere nella sua bella Gerace. Cioè, in “zona rossa”, Covid o meno.
L’udienza preliminare si era tenuta a Roma. Narrano le cronache che il magistrato, la cui carriera è stata costellata da successi brillanti, ma anche dall’ostruzionismo riservato a chi prova a sbrogliare il groviglio di interessi che impastano politica, amministrazione e zone grigie della massoneria, abbia battuto i pugni sul tavolo. Già l’operazione che nel dicembre 2019 condusse ai trecento arresti fu anticipata per necessità: mezzi militari si muovevano a Lametia nei giorni immediatamente precedenti al blitz, un fatto che di per sé suona come un segnale di allarme, per chi è in grado di coglierlo. Ma gli inquirenti capirono che c’era stata una soffiata di altro profilo sulla data. Si decise di agire immediatamente. Si riuscì a salvare il salvabile.
Per Gratteri, a questo punto, era inaccettabile processare gli imputati nella capitale. Il processo che metteva alla sbarra la “cupola” della ‘ndrangheta vibonese e lametina doveva svolgersi proprio lì, dove la presenza dei clan è più forte.
“Dal giorno successivo agli arresti abbiamo cominciato a fare richieste al ministero per avere un’aula bunker – ha ricordato il procuratore a margine della prima udienza – Una struttura adeguata e idonea all’importanza della Calabria e dei calabresi. Perché dobbiamo dimostrare di essere capaci ed efficienti”.
Ironia della sorte, si diceva, la nuova aula bunker ospitava un call center. E proprio sulla base di 24mila intercettazioni sono finiti alla sbarra 325 imputati, con 438 capi di imputazione, 913 testimoni d’accusa, 58 collaboratori di giustizia. Nomi di peso.
Giacca e cravatta, la ‘ndrangheta nelle business school
Del resto, in una guerra che è anche psicologica come quella alla criminalità organizzata, sono cose che contano. Celebrare il processo lì dimostra che lo Stato è riuscito a chiamare a raccolta le proprie energie nonostante gli impedimenti.
Certo, la sproporzione di forze in campo è reale. Per quanto si possa spendere, rivaleggiare dal punto di vista finanziario con una mafia dal bilancio superiore a quello di diversi Stati sovrani è un’illusione. “È la più ricca di tutte”, afferma Gratteri, “grazie al monopolio europeo dell’importazione di cocaina dal Sudamerica”. Ed è presente in tutti i continenti, dal Canada all’Australia.
Qualche numero per capire
Si stima che il giro d’affari delle ‘ndrine si attesti intorno ai 40/50 miliardi di euro all’anno. Fiumi di denaro che vengono riciclati sulle piazze globali sfruttando le più evolute tecniche finanziarie, il web e non disdegnando di avvalersi delle possibilità offerte dal fintech, terra di nessuno dove tra bitcoin e ICO infilarsi è facile. Per chi ha le conoscenze giuste. Relazioni che si costruiscono nelle migliori business school internazionali, dove figli e nipoti dei boss studiano e stringono contatti. A cercare nuovi canali sono loro: distanti dall’immagine del mafioso “scarpe grosse e cervello fino”, sanno usare la violenza, quando serve, ma vestono abiti su misura, lavorano nelle più importanti istituzioni finanziarie e – ha spiegato al quotidiano londinese Times Antonio Nicaso, coautore di un libro con Gratteri – al contempo, sono dotati di un atteggiamento estremamente imprenditoriale e di un network di contatti globale”.
I pentiti confermano le ipotesi dei magistrati. La ‘ndrangheta ha imparato a usare i bitcoin. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ha raccontato che l’acquisto di una partita di droga in Brasile da parte dei clan della locride saltò, negli anni scorsi, perché i locali non sapevano maneggiare la criptovaluta. Per non parlare del gambling, le scommesse online.
“Eravamo molto attenti all’evoluzione del web, specie di quello sommerso fino alle criptovalute – ha raccontato a Linkiesta Luigi Bonaventura, boss pentito – Già dagli anni Duemila avevo persone specializzate, tecnici informatici che facevano mille ricerche sulle nuove modalità di riciclaggio, di acquisto e di pagamento di stupefacente. Non erano ‘ndranghetisti, ma collaboravano con noi sapendo per chi stavano lavorando”.
“Le mafie – prosegue il giornalista Carmine Gazzanni su Linkiesta – seguono la stessa filosofia con cui è nato il bitcoin: decentrare. Gli accordi vengono fatti tramite le chat di Telegram, non rintracciabili, con tanti prestanome disposti a investire poche migliaia di euro per non destare sospetti in moneta virtuale per poi cambiarle in altre criptovalute sfuttando le falle dei siti esteri di exchange, e infine riconvertire in dollari o euro a seconda di dove si vuole riciclare il denaro”. Il fatto che le criptovalute siano ancora una zona franca, dove il diritto e gli stati non sono riusciti ad arrivare, aiuta.
Gli strumenti a disposizione degli inquirenti
Rinascita-Scott proverà a dimostrare l’intreccio tra ‘ndrangheta, massoneria, politica e affari. Gli arresti avvenuti nel 2019 furono effettuati tra Italia, Germania, Svizzera e Bulgaria. La droga spesso entra in Europa tramite porti come quello di Rotterdam, e per distribuirla si usano gang turche e albanesi. Ma le ‘ndrine hanno ramificazioni fortissime in Sudamerica, Canada, e persino in Australia, cresciute in parallelo all’emigrazione. E nel nord Italia. Nel 2010, l’operazione Infinito portò alla luce l’esistenza di una “locale” che si riuniva ai confini tra la Brianza e il Milanese, a Paderno Dugnano, nel circolo Falcone e Borsellino. E la ‘ndrangheta è stata capace di infiltrarsi in tutti i grandi appalti milanesi, Expo in testa, nonostante gli allarmi lanciati dai conoscitori del fenomeno, come Nando Dalla Chiesa.
Ma da qualche anno è cominciata una stagione nuova.
“Dobbiamo essere consapevoli che l’innovazione tecnologica alimenta gli affari illeciti – puntualizza Comito – Ma offre anche uno strumento formidabile per contrastare il crimine organizzato. Fino a qualche anno fa si potevano solo posizionare cimici entrando nottetempo nelle abitazioni degli indagati o intercettarne i telefonini. Oggi è sufficiente che il gip autorizzi l’inoculazione di spyware su telefonino per avere una microspia perennemente accesa nelle tasche del mafioso di turno. L’innovazione tecnologica ha consentito a magistrati antimafia di mettere a segno operazioni di contrasto prima impossibili”. Come quando un politico intercettato a cena rivelò (ascoltato tramite il cellulare che aveva lasciato sul tavolo) di essere riuscito ad avvicinare il pubblico ministero per “aggiustare” un processo.
Ma non è tutto. “Persino organizzare il materiale delle indagini fino a ieri era complicato in mancanza di archivi informatici complessi”. Il solo processo Rinascita-Scott muove atti per oltre cinque milioni di pagine, che per essere spostati richiedono una processione di camionette e scorte. I clan stanno prendendo contromisure, magari lavorando sull’ultima chat criptata. Ma, come spesso accade,i dati che viaggiano in rete sono vulnerabili. “E il metodo più sicuro per comunicare – conclude Comito – resta sempre quello di Provenzano”. Il caro, vecchio pizzino.