A fine aprile è in programma la votazione del Parlamento europeo per equiparare l’ecocidio al genocidio e ai crimini di guerra
Potrebbe essere la volta buona, quella programmata a fine mese dal Parlamento europeo, affinché l’ecocidio possa essere istituito come reato internazionale, equiparato al genocidio e ai crimini contro l’umanità e quindi perseguibile dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Questo è almeno quanto si aspettano gli attivisti che da anni portano avanti la lotta contro la distruzione sistematica dell’ambiente, cioè di quelle attività e comportamenti che colpiscono e decimano ecosistemi e comunità (qui trovate quelle sotto accusa).
Un’esigenza condivisa da tanti leader
Danni contro il suolo, acqua, aria e foreste, con conseguenze dirette su flora e fauna, nonché effetti sul clima, sono le diverse facce di un fenomeno che da decenni colpisce l’ambiente, provocando impatti anche a livello sociale ed emotivo verso popolazioni costrette, in certi casi, a migrare altrove per non soccombere. Negli ultimi anni, grazie alla crescente attenzione dedicata alla salvaguardia dell’ambiente, alla diffusione della sostenibilità in vari ambiti industriali e nello stile di vita delle persone più sensibili al tema, l’idea di difendere il pianeta ha trovato ampi consensi nel dibattito politico e sociale.
Dal Presidente francese Emmanuel Macron (anche ex banchiere e ministro dell’economia), che definisce “la madre di tutte le battaglie inserire l’ecocidio nel diritto internazionale, così che i leader siano responsabile davanti alla Corte penale internazionale”, a Papa Francesco, per cui va evitato “qualsiasi azione che produca un disastro ecologico”, e Greta Thunberg cui va il merito di aver avuto (e avere tuttora) la capacità di imporre il tema ambientale sulla ribalta internazionale, sono tanti i leader e che hanno speso parole e compiuto azioni in favore della svolta green.
L’Europa traina il movimento green
Se la svolta appare ora vicina, va tenuto a mente che l’ecocidio non è una novità dei nostri tempi, poiché già nel 1972 venne utilizzato il termine da Olof Palme, primo ministro svedese dell’epoca, per accusare la scelta del governo americano per l’uso dell’agente arancio durante la guerra del Vietnam (che serviva per farsi largo nella foresta abbattendo il fogliame ma ha reso sterili ampie aree del paese, vitali per i vietnamiti).
Riconosciuti i meriti dell’avvocatessa, scrittrice e attivista scozzese Polly Higgins, scomparsa nel 2019 dopo una vita dedicata alla causa culminata con la fondazione insieme a Jojo Mehta di Stop Ecocide, organizzazione non governativa dedita alla diffusione di concetti e valori legati all’ecocidio, diversi paesi europei hanno dato segnali di rottura col passato, avviando e supportando iniziative mirate a inquadrare il problema come un reato: Svezia, Lussemburgo, Spagna e Paesi Bassi sono in prima linea, con il Belgio a trainare il gruppo e sollevare la questione presso la Corte penale internazionale. “Riteniamo che sarebbe utile esaminare la possibilità di introdurre i crimini conosciuti come ‘ecocidio’ nel sistema dello Statuto di Roma nel corso delle prossime sessioni”, ha dichiarato Sophie Wilmès, vice primo ministro belga.
Un percorso complicato ma obbligato
Il primo passo (dei quattro previsti) per arrivare al traguardo è definire in maniera univoca i crimini che contribuiscono alla scomparsa di specie e alla distruzione di ecosistemi, passaggio cruciale per l’Unione Europea poiché, l’eventuale riconoscimento del reato di ecocidio, metterebbe il Vecchio continente davanti al resto del mondo nell’individuare e sanzionare i responsabili dell’inquinamento ambientale e per combattere una lotta a livello internazionale (perseguendo aziende europee che si macchiano di condotte fuorilegge in stati extra europei) e non più soltanto legato ai tentativi di attivisti, come è accaduto finora, in particolare con cause intentate da associazioni attive in Francia e Paesi Bassi.
I dubbi della corte penale internazionale
Il cambio di paradigma, quindi, sarebbe di enorme portata, anche se non risolverebbe certo il problema perché, al netto di specifici atti illegali (come lo sversamento in acqua di rifiuti), resta complicato definire il recinto entro il quale si può attribuire a una o più persone la responsabilità della distruzione ambientale. Ma non solo, perché anche la specificità e i limiti della Corte penale internazionale pongono ostacoli non semplici da aggirare. Oltre al sovraccarico di lavoro, il tribunale dell’Aja necessita della collaborazione delle autorità nazionale per mettere in pratica le richieste, e l’assenza di membri come Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Turchia e Stati Uniti ne circoscrive il raggio d’azione, indebolendo il potere.
Pur considerando barriere e mancanze, tuttavia, l’importanza della votazione che il Parlamento europeo effettuerà a fine aprile assume comunque notevole importanza, poiché è l’inizio di un percorso finalizzato a mettere multinazionali e grandi imprese davanti alle proprie azioni, obbligandole a rispettare le leggi e salvaguardare l’ambiente per evitare grane economiche e penali.