No a computer e software esteri nelle macchine e nelle reti di aziende e agenzie governative entro il 2022. Una sostituzione da 30 milioni di pezzi
Se il conflitto commerciale con gli Stati Uniti su prodotti e forniture tecnologiche non riesce a sciogliersi – ne sa qualcosa Huawei che ha da tempo in canna il miglior smartphone in circolazione, il Mate 30 Pro, e non può lanciarlo in Europa senza app Google – anche Pechino dovrà pur prendere le sue contromisure. Il governo ha infatti ordinato una maxipurga hi-tech: entro il 2022 tutti i computer e i programmi utilizzati negli uffici pubblici dovranno essere prodotti e sviluppati da aziende cinesi. No, insomma, alle attrezzature e ai programmi esteri nel giro di un paio di anni.
La direttiva per enti e agenzie pubbliche
Lo ha spiegato il Financial Times, che racconta appunto la spinta del regime agli enti pubblici affinché adottino dispositivi nazionali mettendo a rischio un mercato ricchissimo per nomi come Hp, Dell o Microsoft, fra i principali produttori di computer e ambienti operativi. Il piano è graduale ma neanche troppo, pensando alle dimensioni del paese, alla diffusione capillare degli uffici, alle più diverse situazioni – modernissime e antiquatissime – che convivono nella repubblica popolare. Un primo taglio, del 30%, dovrà avvenire in pratica domani mattina, entro il 2020. Si dovrà poi salire al 50% entro il 2021 e al residuo 20% nel 2022.
Se dunque da una parte Donald Trump sfrutta (anche) la leva tecnologica per complicare la battaglia dei dazi con Pechino impedendo ai big player americani, e non solo, di inviare componenti e soluzioni software a certi marchi, su tutti appunto il campione nazionale Huawei, Xi Jinping risponde con una mossa che tuttavia non è affatto isolata: è una campagna lanciata per fare in modo che il sistema cinese, già serrato e ipercontrollato sia in termini di identificazione che di traffico web, si equipaggi sempre di più con prodotti locali. Allineandosi alle stringenti prescrizioni della controversa, a dir poco, legge sulla cybersicurezza approvata nel 2017 e che prevede come le agenzie governative e gli operatori delle infrastrutture critiche usino tecnologie “sicure e controllabili”.
Le sfide
La riconversione sarà monumentale: la direttiva comporterà infatti la sostituzione di qualcosa fra 20 e 30 milioni di componenti hardware, senza contare le questioni che attengono ai sistemi operativi – non solo privati o commerciali ma per la gestione dei server – e così via. “Il programma cinese noto come 3-5-2 è solo il primo passo – ha spiegato al FT l’analista Paul Triolo di Eurasia Group – l’obiettivo è chiaro: guadagnare uno spazio libero dalle minacce che stanno affrontando Zte, Huawei, Megvii e Sugon”. A quanto ammonta la torta che la Cina toglierebbe dal tavolo delle aziende statunitensi? Secondo alcuni esperti 150 miliardi l’anno, anche se la gran parte dei ricavi arriva da acquirenti privati che non sarebbero colpiti dalla direttiva.
La transizione non sarà semplice, perché lo sviluppo dei sistemi operativi è sempre stato schiacciato sulle soluzioni destinate ad ambienti Windows o Apple e le alternative “cinesi” non sembrano ancora all’altezza. Non solo: nomi come Lenovo, ritenuti “cinesi”, sono in realtà aziende globali che incorporano componenti da molti altri fornitori, basti pensare a Intel o Samsung.