Del resto, naturale (ma non scontato né banale) l’accostamento al grande figlio illustre della città delle due Torri, Lucio Dalla, e a quella meravigliosa poesia in musica che ci regalò con “Futura”.
“Cosa avrà nelle sue mani.. le sue mani
si muoverà e potrà volare
nuoterà su una stella
come sei bella e se è una femmina si chiamerà Futura
Il suo nome detto questa notte mette già paura
sarà diversa bella come una stella sarai tu in miniatura”.
#Futura, femminile, come la bellezza, come la speranza, come la poesia.
Fare scuola nel senso più nobile
Ho partecipato in veste di formatore ed ho stretto mani, visto e rivisto amici e incontrato colleghi vecchi e nuovi animati da curiosità e voglia di apprendere, condividere, contaminare a lasciarsi contaminare. Insomma, di “fare scuola”, nel senso più nobile, di costruzione di una comunità, di partecipazione attiva. Un gruppo di persone che, nonostante le difficoltà di una struttura scolastica basata su un apparato (spesso) bloccante, ha voglia di dare rango a questo alfabeto del nuovo millennio, uscendo da una forma di “carboneria” (digitale) e tracciando una via.
Non faccio mistero di non amare l’aggettivo “digitale” accanto a scuola. Perché “scuola” dovrebbe contenere già in sé il senso del “quid novi”, della sperimentazione, del presente che emerge e si fa futuro. Praticandolo. Certo, le difficoltà sono tante e le resistenze sono altrettante e molto forti. Pensiamo, ad esempio, al nuovo indirizzo del MIUR in materia di uso dei dispositivi mobile (tablet e smartphone) nella didattica legig anche con relativo decalogo cui seguirà il documento del gruppo di lavoro (coerentemente con la Azione #6 del PNSD) annunciato dalla Ministra Fedeli venerdì pomeriggio.
A tal proposito, le resistenze e taluni “umori” di genitori e addetti ai lavori denotano l’esistenza di un problema culturale e metodologico non da poco: culturale, poiché si usano spesso locuzioni come “correggere il comportamento” o “uso consapevole” di tali dispositivi, medicalizzando il problema; metodologico, poiché l’impiego del cellulare nella didattica non è un fatto meramente tecnico ma legato all’uso e allo sviluppo di abilità e competenze che da esso possono derivare se lo si usa in modo tale da uscire dalla sindrome dell‘imbuto di Norimberga del docente che inocula nella testa dello studente nozioni “un tanto al Kg”.
Il digitale come nuovo alfabeto
Ma, allora, perché il digitale a scuola deve trovare piena cittadinanza e, con esso, gli strumenti che ne consentono l’efficace adozione? Per due motivi:
1. perché fa parte del quotidiano. Come la penna biro negli anni ‘50/’60.
2. poiché è un nuovo alfabeto.
Un nuovo linguaggio che ha bisogno di essere fissato, codificato, compreso e sdoganato per poter essere utilizzato. Quanto al primo punto, trovo esemplare il racconto di Peppino Ortoleva su Rai Storia.
Davvero superfluo aggiungere qualcosa. Per quanto attiene al secondo punto, invece, attingendo ai miei ricordi di studente, mi è tornato in mente il De Vulgari Eloquentia di Dante. Ho amato l’Alighieri da studente perché immaginavo cosa sarebbe stato in veste contemporanea. L’ho sempre attualizzato, come personaggio storico, ancor prima che narratore. E, nella mia visione, Dante era un Ingegnere o un Architetto: uno che immagina una struttura così complessa di Paradiso, Inferno e Purgatorio e ne realizza (in versi) una sua proiezione mentale non poteva che esser tale.
Ma Dante è soprattutto un immenso innovatore: teorizza e usa una lingua volgare, costruendola da tanti costrutti aggrovigliati e rozzi (come dice Vittorio Sermonti, in questa straordinaria lectio magistralis), usandola per mettere insieme una poesia per fondare lingua. Perché lo fa? Perché questo “cocciutissimo progetto” a dispetto della critica? Perché promuovere le parlate irregolari ma vive, praticate, usate dal popolo per diffondere “il pan degli angeli della conoscenza”.