Elon Musk è solo l’ultimo ad aver presentato la sua personale interpretazione di una space suit. Come sarà la tuta spaziale del futuro?
Bianche, blu, nere o arancioni: le agenzie spaziali e Hollywood ci hanno regalato moltissime interpretazioni di come sono e come potrebbero essere le tute spaziali, pochi millimetri di stoffa e tecnologia che dividono il corpo degli astronauti dal vuoto dello spazio o dalle proibitive condizioni climatiche della Luna e di Marte. Di questi giorni l’annuncio di SpaceX, l’azienda di Elon Musk, che ha pronta la prima versione della propria tuta spaziale destinata a essere indossata dai passeggeri della futura navetta Dragon certificata per il volo umano. Ma la strada che porta alle modernissime tute spaziali SpaceX (molto fashion, a dire il vero) comincia nei lontani anni 50 del secolo scorso.
Le tute della missione Mercury e quella di Yuri Gagarin
La corsa allo spazio è iniziata alla fine degli anni 50 del ventesimo secolo: è stato allora che le due superpotenze dell’epoca, URSS e Stati Uniti, hanno iniziato a sfidarsi nella rincorsa al volo orbitale prima, e all’esplorazione degli altri oggetti del Sistema Solare dopo.
Gli Stati Uniti scelsero inizialmente una via di compromesso: le tute indossate dai pionieri del programma Mercury, quasi tutti piloti e collaudatori prestati al viaggio spaziale, erano di fatto delle tute pressurizzate create per i voli suborbitali ad elevata altitudine. Le aveva progettate e costruite l’azienda privata BF Goodrich, e una versione specifica denominata Navy Mark IV venne realizzata su misura di tutti i componenti del programma: le modifiche principali riguardarono l’utilizzo massiccio di nylon e alluminio per migliorare la schermatura al calore della tuta, oltre all’aggiunta di un sistema di telemetria biomedica.
I sovietici invece decisero da subito di costruire una tuta spaziale per i loro cosmonauti: la Skafandr Kosmicheskiy 1, o più semplicemente SK-1, fu indossata da Yuri Gagarin durante il primo volo spaziale a bordo della Vostok 1, e da tutti gli altri passeggeri di quella che fu la prima navetta spaziale prodotta dall’URSS. Esisteva anche una seconda versione della tuta, denominata SK-2, progettata per essere indossata da una donna: si trattava di Valentina Tereshkova, che per prima nel giugno 1963 andò nello spazio a bordo della navetta Vostok 6.
La NASA fu lesta a recuperare terreno: per il programma Gemini, che includeva anche le prime attività extra-veicolari (EVA), venne sviluppata una tuta spaziale omonima che derivava da quanto già prodotto per i piloti collaudatori del programma X-15 (tra questi c’era anche un certo Neil Armstrong). Le tute Gemini comprendevano alcuni dettagli che si trovano anche oggi nelle tute spaziali moderne: come i guanti rimovibili con anelli di bloccaggio, casco con parasole, e infine uno strato in mylar che garantiva un migliore controllo termico rispetto all’alluminio.
Le missioni Apollo e lo Space Shuttle
Con la corsa alla Luna in pieno svolgimento, anche il programma delle tute spaziali statunitensi subì una forte accelerazione. Il viaggio verso il nostro satellite è piuttosto lungo, dunque si dovevano progettare tute facili da indossare e togliere durante il viaggio anche senza l’assistenza dei tecnici di terra. Inoltre, in previsione dello sbarco sulla Luna, era necessario che le tute fossero anche in grado di permettere una certa libertà di movimento e fossero in grado di funzionare in modo autonomo: era indispensabile prevedere un sistema di supporto vitale indipendente da quello della nave spaziale.
I russi non stavano con le mani in mano, ma oggi quella che tutti ricordano è la tuta A7L Apollo che Neil Armstrong e Buzz Aldrin indossavano quando scesero dal LEM per la prima passeggiata sul polveroso suolo Lunare. Era una tuta decisamente più avanzata rispetto alle precedenti, modulare, che prevedeva già in fase di progetto diverse configurazioni: si componeva di due parti, una sotto-tuta di colore blu che serviva a gestire la termoregolazione, e l’iconica parte esterna di colore bianco che venne anche resa ignifuga dopo il terribile incidente occorso all’Apollo 1 sulla torre di lancio. La peculiarità della A7L era la sua assoluta indipendenza per il supporto vitale: nello “zaino” sulle spalle degli astronauti c’era ossigeno, filtri per l’anidride carbonica, una riserva di energia e acqua per garantire la termoregolazione. Nel caso in cui le attività EVA fossero particolarmente prolungate e impegnative, inoltre, era previsto persino un vano per ospitare degli snack e una tasca per l’acqua potabile.
Parallelamente alla A7L (e alla sua variante A7LB), gli Stati Uniti svilupparono anche una nuova tuta pressurizzata di colore arancione pensata appositamente per il programma Shuttle: la Advanced Crew Escape Suit è rimasta in servizio fino a quando gli Shuttle hanno volato, subendo alcune modifiche e aggiunte nel corso degli anni. Per le EVA, invece, venne realizzata la Extravehicular Mobility Unit (EMU) che è usata tuttora a bordo della Stazione Spaziale Internazionale per le attività fuori dalla ISS, assieme alla Orlan di fabbricazione russa.
Chi viaggia da e verso l’avamposto spaziale a bordo di una Soyuz, infine, indossa normalmente una tuta russa di classe Sokol (che in lingua russa significa “falco”): è una tuta pressurizzata pensata esclusivamente per il viaggio a bordo della capsula, realizzata dall’azienda russa NPP Zvedza su misura per ciascun cosmonauta o astronauta ma inadatta per qualsiasi EVA.
Le tute del futuro: da Virgin Galactic a SpaceX, passando da Hollywood
Il futuro dei viaggi spaziali sarà sempre più una questione di imprenditori privati: ormai pare che questa sia una tendenza incontrovertibile, e di pari passo con l’arrivo di Elon Musk con la sua SpaceX, Jeff Bezos con Blue Origin, John Carmack con Armadillo Aerospace (ora confluita in Exso Aerospace) e Sir Richard Branson con Virgin Galactic, anche il concetto di viaggio spaziale si andrà trasformando da impresa pionieristica a lavoro o diletto per tutti (o almeno per chi se lo può permettere).
Oltre ai vari esperimenti e prototipi che la stessa NASA porta avanti, anche assieme a designer e progettisti che non fanno parte dell’ente spaziale statunitense, i due progetti più intriganti sono proprio quelli di SpaceX e quello di Virgin Galactic. Partiamo da quest’ultimo: a gennaio 2016 l’azienda che punta a rendere il turismo spaziale una realtà ha annunciato di aver stretto una partnership con il marchio Y-3 di Adidas, per il design di tutto quello che si indosserà nello spazioporto in costruzione nel New Mexico: dalle tute dei tecnici alle tute spaziali per il volo, tutto sarà firmato dall’acclamato designer giapponese Yohji Yamamoto.
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SpaceX invece ha deciso di fare tutto in casa, almeno per quanto ne sappiamo fino a questo punto: quanto ha mostrato con un post su Instagram Elon Musk è una tuta pressurizzata per il volo, che non pare pensata anche per le attività EVA, molto moderna nelle linee e decisamente alla moda anche nella scelta dei colori. Domina il bianco, ci sono dettagli color nero, e Musk ci tiene a precisare che non si tratta di un semplice mockup ma di un vero e proprio prototipo, testato, funzionante e che presto potrebbe essere anche indossato da un collaudatore.
Da segnalare il lavoro portato avanti da Chris Gilman con la sua Orbital Outfitters: Gilman nasce costumista per Hollywood, ma il talento mostrato nel design delle tute spaziali da film ha convinto la stessa NASA a invitarlo a collaborare alla progettazione di una tuta spaziale vera e propria.
Infine, vale la pena ricordare proprio le visioni più recenti del cinema rispetto alle tute spaziali del prossimo futuro. La più interessante è senza dubbio quella arancione indossata da Matt Damon in The Martian, molto snella e tecnologicamente avanzata, che è stata derivata da alcuni studi portati avanti da NASA stessa per cercare di immaginare come sarà la prossima generazione di tute per il programma spaziale statunitense. Sullo stesso filone le tute mostrate in Interstellar, ma più rigide e più simili a quanto si è già visto a bordo delle vere navi spaziali attualmente in servizio.