Sono i numeri della startup “L’alveare che dice sì!”, protagonista di una crescita da 20 mila utenti nel 2016. E al salire delle commissioni salgono le opportunità che sposano gig economy e cibo etico
Gruppi d’acquisto solidali 2.0, è boom. Lo raccontano i numeri della startup – dal nome singolare ma dal progetto di grande sostanza – L’alveare che dice sì!, sbarcata in Italia nel 2015 dopo una rodata esperienza francese. Si tratta appunto di un progetto transalpino incentrato sul modello dei gruppi d’acquisto direttamente collegati con i produttori agricoli e gli allevatori e lanciato nel 2011 sotto il nome La ruche que dit oui. Oltralpe ha fatto segnare ottimi risultati: oltre 650 alveari sono attivi in tutto il Paese.
La crescita in Italia
Il 2016 è stato un anno di crescita roboante anche in Italia: oltre cento i gruppi che si sono formati su tutto il territorio nazionale, con più di 20 mila utenti registrati sulla piattaforma. Nel complesso, i produttori che hanno aderito al progetto hanno venduto oltre 500 mila euro di merce, contribuendo a diffondere la cultura del cibo genuino e promuovendo la filiera corta a km 0.
Ma quanto si guadagna con i gruppi d’acquisto?
Prendendosi cioè la responsabilità di coordinare gli appuntamenti di acquirenti e produttori ma anche, oltre il dato logistico, di tenere in piedi il meccanismo? Con una gestione attenta, almeno tramite L’alveare che dice sì!, si possono superare i 500 euro al mese considerando che il volume d’affari medio di un buon alveare a regime è di oltre mille euro a settimana. Grazie all’aumento della commissione, chi li gestisce può arrotondare e contribuire alla diffusione di una rete alternativa di microdistribuzione.
Una faccia della gig economy
Questo sarà ancora di più possibile a partire dal 20 febbraio 2017, quando la percentuale di servizio, cioè il ricavo che il gestore ottiene dal volume d’affari dell’alveare che segue, salirà appunto al 10% dall’attuale 8,35%: una decisione che permetterà alla startup di valorizzare la propria rete e ai gestori di promuovere il proprio “gruppo di acquisto 2.0”. “L’idea della nostra startup non è soltanto quella di promuovere il buon cibo e le realtà sociali, culinarie e imprenditoriali locali, ma anche quella di offrire un’opportunità all’interno della gig economy, la cosiddetta ‘economia del lavoretto’, conseguenza diretta di quella della condivisione, meglio nota come sharing economy – spiega Eugenio Sapora, fondatore de L’Alveare che dice Sì, incubato all’I3P, l’acceleratore del Politecnico di Torino – l’alveare permette infatti a giovani studenti, pensionati, casalinghe, disoccupati ma anche a qualsiasi appassionato di cibo di reinventarsi e di inserirsi nel mondo del lavoro con un’occupazione part-time, come quella di gestore”.
Come si apre un alveare?
E quindi, come si apre un alveare? Può farlo chiunque: privati, gruppi, attività. Il compito è importante: il gestore trova un luogo per la distribuzione, tiene i rapporti con le aziende e coordina il gruppo di acquirenti nell’arco di 250 chilometri. Basta collegarsi al sito e compilare il modulo di richiesta a cui seguirà un colloquio con il team torinese. Sempre tramite il sito e l’applicazione della startup i consumatori potranno invece unirsi alla community e scegliere cosa acquistare, senza obbligo di frequenza o spesa minima. Produttori e utenti si ritrovano poi una volta alla settimana per la consegna dei prodotti freschi e locali, organizzata dal gestore.