E’ un’invenzione paragonabile per portata al polmone d’acciaio e al bypass. Un cardiochirurgo di Mirandola brevetta un dispositivo per le insufficienze cardiache che non ha fili e batterie esterne. Chi sono i founders di Eucardia, vincitori del Premio Marzotto 2016
Nella foto finale del Premio Marzotto questa volta non ci sono due sviluppatori ventenni o trentenni, non c’è un’app destinata a milioni di download, non c’è una storia partita per gioco da un garage. Ci sono un padre con occhiali spessi e una figlia. Lui, medico e professore universitario, lei proviene dal mondo dell’editoria. Eppure, la loro startup è disruptive, nel senso che è destinata a cambiare davvero le sorti di una branca della medicina tradizionale, da un lato e, soprattutto, migliorare la qualità della vita di milioni e milioni di persone in tutto il mondo.
Una storia, quella di Eucardia, che inizia a Mirandola, in Emilia, il cui territorio per la biomedica è un po’ la Silicon Valley italiana. Il protagonista è il prof. Roberto Parravicini, cardiochirurgo milanese che negli ultimi decenni ha operato più di 10 mila persone tra Italia e Stati Uniti nonché ordinario all’Università di Modena e Reggio Emilia. Nella biografia sul sito (tutto in inglese, ma con dominio .it) della startup si definisce come «serial inventor», un inventore seriale. Eucardia, infatti, non è il suo primo brevetto. Pur non essendo un ingegnere, ma un medico, un uomo abituato non a saldare componenti meccaniche o schede elettroniche ma a incidere col bisturi l’organo più importante di tutti, il cuore. E probabilmente questa sua ultima grande intuizione potrebbe consegnare il suo nome alla storia della biomedica, al pari di altre grandi innovazioni come il polmone d’acciaio o il bypass.
E come ogni favola che si rispetti, dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. In questo caso la figlia, Francesca. Infatti, se non fosse stato per lei, che nel 2013 ha iniziato a credere in uno degli ultimi brevetti del padre costruendoci nel giro di un anno una startup e che, tre anni più tardi, ha inoltrato l’application per il Premio Marzotto, probabilmente oggi questa storia non l’avremmo mai scritta.
L’insufficienza cardiaca, il killer silenzioso del nostro cuore
Affinché il cuore funzioni correttamente, le sue quattro camere devono lavorare insieme per pompare il sangue ai polmoni e a tutte le cellule del corpo. Quando ciò non avviene, ovvero quando il cuore (spesso a seguito di infarto o a causa di altre patologie) si indebolisce sino a non riuscire più a svolgere pienamente la sua funzione principale, ovvero pompare sangue, vi è la cosiddetta insufficienza cardiaca.
I sintomi più comuni dell’insufficienza cardiaca comprendono affaticamento e mancanza di respiro. E possono diventare molto difficili anche attività quotidiane come camminare, salire le scale o trasportare pesi. Una malattia fortemente invalidante, dunque, che nei suoi stadi avanzati, per tutti coloro i quali per diverse ragioni non sono “candidabili” a un trapianto di cuore, necessita comunque di terapie invasive, come l’installazione di dispositivi di assistenza ventricolare (Vad).
Come si cura oggi l’insufficienza cardiaca
Un dispositivo di assistenza ventricolare (Vad) è una pompa meccanica. Quando un nostro ventricolo, ovvero una delle pompe naturali del cuore, non funziona bene, si utilizza un Vad per aumentare la quantità di sangue che scorre attraverso il corpo. Un Vad, infatti, è una pompa artificiale, inserita e collegata al ventricolo e, a sua volta, attraverso un cavo a un’unità di controllo esterna (un piccolo computer) che ne monitora il funzionamento. Ovviamente tutto ciò prevede attualmente anche l’utilizzo di alimentatori e batterie che fanno funzionare la pompa e l’unità di controllo esterna. Sono interventi che aumentano l’aspettativa di vita, certamente, ma a danno della qualità della stessa.
Che cos’è Eucardia (e perché è rivoluzionario)
Nella startup di Parravicini non c’è digitale, lo abbiamo detto. E neanche elettronica. Ma la portata dell’innovazione è comunque una tecnologia che può essere considerata esponenziale, perché rivoluzionaria. Eucardia è un dispositivo di assistenza ventricolare (Vad) completamente diverso da quelli oggi previsti, oltre alle terapie farmacologiche, dai protocolli della medicina internazionale: non prevede alcuna manutenzione né, soprattutto, le apparecchiature esterne che attualmente costringono il paziente al calvario letto-poltrona-ospedale. Il dispositivo viene inserito nel malato praticando una piccola incisione e, una volta inserito nel ventricolo, potenzia l’efficienza del cuore utilizzando la forza contrattile residua del ventricolo stesso. Terminato l’impianto non ci saranno più altri interventi: l’installazione di Eucardia è a vita.
«L’insufficienza cardiaca è la malattia che costa più cara di tutti perché dopo l’intervento i pazienti nel giro di poco tempo vivono tra il letto e la poltrona, comportando peraltro un costo notevole per la società. Infatti le terapie e l’assistenza valgono oggi circa 2 punti di Pil nazionale», spiega a Startupitalia.eu il prof. Parravicini.
Cosa rende Eucardia diverso dagli altri dispositivi? Secondo chi l’ha ideato vi è «un enorme vantaggio, poiché usa l’energia del ventricolo sinistro senza aver bisogno di energia esterna. Non ci sono comunicazioni tra la cavità interna ed esterna, cosa che peraltro purtroppo comporta spesso la Sepsi, che prima o poi porta alla morte».
“Ha provato a spiegare Eucardia agli altri medici?”, gli chiediamo. «Ti dicono “bello, se funziona”… però pian piano abbiamo trovato anche chi ci ha creduto», dice, sorridendo, Parravicini. Gli fa eco Francesca, che per Eucardia cura la comunicazione e le relazioni con gli investitori: «Per fortuna siamo riusciti a raccogliere intorno alla nostra idea non solo risorse ma anche persone che sono qui a condividere con noi questo momento, come il nostro Ceo Marco Bottaro e la project manager Caterina Turrisi. Che ci crede talmente poco – aggiunge il padre – che si è trasferita da Milano a Mirandola».
Restare in Italia o andare all’estero
Cosa faranno con i soldi (e i servizi di affiancamento) del Premio Marzotto? «Abbiamo già un piano che Marco ha sviluppato per tutto il prossimo anno. Questo investimento ci consentirà sicuramente di proseguire la nostra attività e trovare altri fondi di investimento», spiega Francesca Parravicini.
Lo sguardo, comunque, è già proiettato in Europa e negli Usa. «Potessimo rimanere in Italia lo faremo volentieri», ammette il Ceo, Marco Bottaro. «Di fatto siamo già internazionali. Lavoriamo già in Europa e abbiamo intenzione di andare a testare Eucardia nei centri di eccellenza, che purtroppo in molti casi non sono in Italia. Nonostante ciò, come Paese abbiamo dei vantaggi interessanti, ad esempio le risorse umane, importanti e con costi contenuti».
Forse per trattenerli in Italia basterebbe l’interesse del Ministro della Salute, o comunque di chi gestisce la sanità pubblica. Prima di tutto agevolandone e velocizzandone autorizzazioni burocratiche e, poi, l’eventuale sperimentazione. Oppure, chiediamo a Bottaro, lato business in futuro pensate di rivolgervi direttamente ai pazienti? «Molto probabilmente a decidere saranno gli stakeholders della sanità piuttosto che il cittadino. Non dimentichiamo però che oggi il paziente è anche stakeholder, è informato, quindi…». Quindi puntate dritti all’exit? «Nella storia di Eucardia potrà succedere che arrivi una grossa società, i colossi, diciamo, che hanno in mano queste tecnologie e che le portano con le loro strutture ai pazienti».
Il senso di questa storia
Il team di Eucardia ha vinto da neanche 20 minuti uno dei premi più ambiti per chi fa innovazione in Italia, e noi abbiamo approfittato anche troppo della loro disponibilità. E’ giusto che vadano a godersi la loro serata e, magari, a stringere la mano di qualche investitore illuminato. Prima di congedarci, però, tra giornalismo e ammirazione sorge quasi spontanea una domanda. L’ultima.
Professor Parravicini, lei in questo momento ha la consapevolezza che da domani forse il suo nome potrebbe essere accostato a quello dell’inventore del polmone d’acciaio, o ancora a quello del bypass? La risposta, mentre gli occhi sembrano ripercorrere all’indietro una carriera di sicuro brillante e, certamente anche difficile, è di quelle che da sole, come alla fine di un romanzo, ti fanno capire tutto il senso di questa storia.
«Il primo brevetto l’ho fatto nel 1980. Dall’inizio ho sempre avuto questa passione di trovare delle vie nuove, di sperimentare nuove soluzioni bio-ingegneristiche. Ho avuto la fortuna di iniziare a fare il cardiochirurgo in un periodo in cui si cambiava ogni giorno, ogni giorno c’era una novità, c’era sempre un’innovazione tecnologica che si inseriva nel lavoro di sala operatoria. La ricerca è sempre stata la mia passione».
Aldo V. Pecora
@aldopecora