Il cerchio si stringe e la pacchia è (quasi) finita. Si sta parlando di tassazione dell’economia (digitale) e i segnali di un cambiamento imminente arrivano da più parti. Il vero problema però non sono le Web company ma la competizione fra gli Stati.
Andiamo con ordine. L’Italia, come molti ricorderanno, è stata teatro a fine 2013 di un acceso scontro tra i proponenti della norma ribattezzata Web tax e chi sosteneva che l’argomento andava trattato a livello europeo. Questa seconda linea ha ottenuto il supporto di Matteo Renzi proprio durante il suo passaggio a Palazzo Chigi, e ha avuto la meglio su quella rappresentata dal proponente della legge Francesco Boccia, anch’esso del Partito democratico e tornato alla carica nelle ultime ore con la richiesta di arrivare a una soluzione condivisa a Bruxelles entro fine anno.
Intanto la Francia, dove si pone lo stesso problema di muoversi o meno in autonomia per un problema che riguarda sedi e circolazione del denaro nel Vecchio Continente, ha preso il toro per le corna e inchiodato Google France alle sue responsabilità: secondo i documenti consegnati da Mountain View stessa alla Sec statunitense, in febbraio è stata inviata una richiesta di adeguamento fiscale, che secondo la stampa francese si aggirerebbe fra 500 milioni e il miliardo di euro.
Attenzione, però, l’Europa intanto ha sguinzagliato a fine dicembre un gruppo di esperti per esaminare la questione e trovare la strada migliore, e non dannosa per l’innovazione, per tassare equamente gli introiti delle Web company. Guidato da Vitor Gaspar, ex ministro delle finanze portoghese, e composto da docenti universitari, esperti del settore e rappresentanti delle imprese di Portogallo, Francia, Regno Unito, Germania, Estonia, Irlanda e Svezia il gruppo ha partorito un rapporto di 82 pagine intitolato Commission expert on taxation of the digital economy dal quale emerge che l’economia digitale non ha bisogno di un regime fiscale ad hoc ma deve rientrare in una più ampia riforma fiscale che ne regoli l’attività. Il noto problema è quello delle tasse pagate nei singoli paesi a fronte di sedi in zone, come il Lussemburgo o l’Irlanda, in cui sono presenti agevolazioni di cui godere mentre si prestano servizi in tutto il Vecchio Continente. Il secondo passo di questa pratica nota come Double Irish Dutch Sandwich è l’invio del denaro nei paradisi fiscali attraverso l’Olanda, Dutch appunto. Nel 2012, analizzando il fenomeno, Bloomberg ha citato un risparmio di 2 miliardi di dollari in tasse per Google. Proprio Google nelle ultime settimane è stata oggetto di un’indagine dagli Usa per i 30 miliardi di dollari offshore con cui ha dichiarato di essere intenzionata a investire all’estero.
L’approfondimento europeo ha preso in considerazione l’atteggiamento delle società statunitensi in patria e nel resto del mondo negli ultimi tre anni ed estendendo l’analisi alle realtà non digitali. “Questi dati confermano quello che già sapevamo: qualsiasi azienda basata sulla proprietà intellettuale può fare e fa tax manangement. C’è una bassa variazione intersettoriale e un’alta variazione geografica”, spiega il docente della Bocconi Carlo Alberto Carnevale Maffé a SmartMoney. Questo cosa vuol dire? Che Google, Facebook e Amazon adottano gli stessi comportamenti perfettamente legali che consentono a società di altri settori basate su proprietà intellettuale di muoversi nel modo più vantaggioso possibile. Carnevale Maffé li chiama “rimbalzi fiscali” e riconosce come il digitale abbia esasperato la questione. La vera variazione, prosegue, è quella “fra Stati Uniti ed Europa, ed è anche il motivo per cui gli Usa non si preoccupano più di tanto: il grosso delle tasse, anche per attività effettuate all’estero, va a loro”. Per evidenziare la sostanziale uniformità fra i settori il docente mette la lente di ingrandimento su Amazon: “In tre anni ha una media più alta di Procter & Gamble”. C’è “un problema di competizione fra Stati: le aziende non fanno altro che trarre vantaggio dalla legge, come è naturale che sia”, prosegue.
Gli esperti sono infatti arrivati alla conclusione che non serve un regime fiscale separato ma è necessario un adattamento alle norme attuali. Bisogna, in considerazione delle modifiche apportate al mercato dal digitale, creare un ambiente caratterizzato da nome fiscali “neutrali, semplificate e coordinate” e, per quello che riguarda l’Iva, uniformare la tassazione a livello territoriale per evitare regimi complessi. Leggi, pestarsi i piedi gli uni con gli altri. La seconda metà dell’anno sarà cruciale in questo senso, con l’Italia a giocare la partita in prima linea nel suo semestre di presidenza.