«L’America ti insegna che il mondo si può scarabocchiare, non devi colorare per forza dentro le righe e che ognuno di noi ha qualcosa di particolare da offrire. E offrirlo è un dovere». Lui è Federico Dubini, 28 anni, tre aziende e due exit. Vive tra Los Angeles, città sempre più forte in deep tech, e Palo Alto, dove gestisce Enea, un fondo da 50 milioni di dollari. Tra i soci ha un italiano stimatissimo in Silicon Valley, il cui nome è top secret. Ha creato un fondo di founder che aiutano altri founder. «Lo facciamo sia nella fase da 0 a 1, tramite lo sviluppo del prodotto e strategie per il go to market. E nella fase da 1 a 10, per trasformare idee brillanti in “Revenue Machines”, solide e scalabili».
“Investire porta ritorni, ma ha anche una forte funzione sociale. Significa permettere agli imprenditori di esprimere il proprio talento e metterlo a servizio di tutti, per risolvere i problemi del mondo”.
Chi è Federico Dubini
Mamma architetta, papà piccolo imprenditore, Federico Dubini fin bambino inventa business. All’età di 5 anni, in spiaggia organizza piccoli banchetti per vendere biglie e giochi, e si ritrova a gestire 20 collaboratori. Durante le elementari dipinge euro finti che diventano una moneta di scambio per centinaia di bambini. Alle scuole medie compra e rivende oggetti online. Alle superiori crea un’azienda che organizza eventi, dalla a alla z, chiamando dj internazionali «Siamo arrivati a ospitare più di 10mila persone per evento. Avevamo come sponsor aziende come Uber. Eppure in tutto quel tempo mi sono sempre sentito strano e non accettato, come se stessi facendo qualcosa di sbagliato. La mia ambizione era vista come arroganza. Mia mamma è stata chiamata a scuola 17 volte. Un giorno la prof di matematica, cercando di bocciarmi, le disse: suo figlio è un capitalista da combattere».
Perché l’America è la scelta migliore
Durante gli anni del liceo, Federico Dubini trascorre le sue estati nelle università americane. E proprio durante un corso estivo alla University of Pennsylvania, a 16 anni, capisce che nel mondo esistono realtà dove l’ambizione viene premiata e di voler vivere in America. «Al termine di un corso di International leadership ci hanno dato un compito: trovare un’idea che risolva un problema sociale. Cosi abbiamo presentato l’idea di Dreamless, quella che poi è diventata un’organizzazione non governativa per impedire l’infibulazione delle giovani donne in Etiopia, un problema enorme. Dopo la presentazione, il vice rettore mi ha chiamato per darmi forza e capitali per realizzare il progetto. “Trasformate l’idea in qualcosa di concreto”. Li ho capito che avevo trovato un posto dove la mia volontà di creare valore veniva accolta, stimolata e supportata».
A 19 anni, si iscrive al World Bachelor in Business in Bocconi, facoltà in inglese sviluppata insieme alla Marshall School of Business della USC di Los Angeles e la Hong Kong University of Science and Technology (HKUST). «Eravamo 50 studenti provenienti da tutto il mondo» Frequenta un anno a Milano, due anni a Los Angeles, 1 a Hong Kong dove prende tre lauree. Anche in Cina con un partner locale individua un’opportunità e sviluppa un’azienda che dopo poco vende al socio. Ma è la California la terra dei suoi sogni imprenditoriali.
Nel 2015, colpito dall’uso prevalente di Zoom (5 anni prima del Covid), Federico Dubini crea un software che cattura i dati dalle videocall per aiutare le aziende ad assumere e a gestire i talenti in maniera oggettiva. All’inizio i clienti erano le grandi corporate. Ma il processo di vendita era lunghissimo, così Federico fa un pivot e inizia a rivolgersi alle startup e ai loro fondatori.
«Le startup nelle fasi iniziali non hanno un HR (un reparto risorse umane ndr). Parli direttamente con il fondatore, che spesso è un coetaneo, ossessionato dal prendere decisioni in maniera oggettiva. Il processo di chiusura di un contratto dura pochi giorni, non anni. Appena una startup raccoglie 50 milioni con un round di series A, la prima domanda che l’imprenditore si fa è: come posso assumere efficacemente e in scala? Il nostro prodotto era la risposta perfetta. Tra diversi clienti, 21 sono diventati unicorni, ossia startup valutate oltre un miliardo di dollari. Lì ho capito che Yobs, questo il nome della mia startup, era un ottimo funnel per confrontami con le aziende più in forte crescita della Silicon Valley. Così ho iniziato a investire piccoli assegni da 10 mila dollari. Prima lo facevo solo, poi su richiesta. In Usa è molto complesso avere esposizione a tali round di investimento, così ho iniziato a condividere le mie opportunità con gli amici, investendo 500mila dollari di volta in volta tutti assieme. Quando queste cifre sono diventate più importanti e le opportunità di investimento migliori, tutti hanno iniziato a chiedermi: perché non fai un fondo? Per anni ho detto di no, volevo focalizzarmi sulla mia società»
A un certo punto, durante il Covid, Yobs rallenta la crescita. «Startup significa crescere esponenzialmente. Per definirti startup in Silicon Valley devi fatturare nel primo quadrimestre dell’anno quanto hai fatturato l’anno prima. Se la crescita non è esponenziale, meglio vendere. Gli investitori americani lo sanno e credendo nell’imprenditore più che nell’idea ti spingono a farlo…»
Federico Dubini individua Gong tra i vari potenziali compratori. «Poteva far crescere il prodotto al meglio e raggiungere la mia visione iniziale». Decide di vendere e inizia a costruire il fondo Enea come un fondo di imprenditori che investono in altri imprenditori. «In California c’è una community di founder fortissima, che decide quali investitori mettere alla prova ed eventualmente accettare. Con il nostro fondo siamo riusciti a entrare in società molto competitive dove anche i fondi più grandi e storici combattono per entrare. Noi aiutiamo in maniera concreta, pratica e attiva i nostri founder, giorno dopo giorno. Avere accesso ad alcune aziende in America è un asset, è un onore e bisogna costruire intorno una infrastruttura per poter mantenere un “deal flow” di primo livello costante».
Non è un Paese per giovani?
E in Italia? «Fino a che sei giovane, sei solo un ragazzo. Se sei ambizioso, sei arrogante. Se vuoi creare qualcosa, devi fare una gavetta pazzesca, partire dalla stanza dei pacchi e a 60 anni, forse, sarai Ceo. I grandi imprenditori che abbiamo in Italia sono quasi tutte persone anziane. Il mondo oggi cambia così velocemente che due anni di esperienza concreta in un settore valgono più di 60 di un mondo obsoleto. In California mi siedo a tavola con decine di startup, create da under 30 che valgono miliardi di dollari. Numeri uno di vari settori che vedono nella ricerca, nella tecnologia e nella capacità di portarla sul mercato, un mezzo per risolvere i problemi dell’umanità: dalla salute alla difesa, all’education all’energia, alla semplice efficienza nel mondo del lavoro, nelle infrastrutture e nei campi produttivi».
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«Abbiamo tutti un talento da offrire, condividerlo è una responsabilità sociale qualunque esso sia. Non offrirlo è una forma di egoismo – porta via a tutti valore. Da giovani si può prendere più rischio, si ha più tempo, si è a contatto con il mercato che evolve continuamente. Si può viaggiare di più e dormire di meno, non si ha una famiglia che dipende da te, si ha la giusta ingenuità che spesso porta a innovare. È un momento della vita perfetto per provare a creare e non per seguire percorsi prestabiliti in un passato ormai obsoleto». Tornerai in Italia? «Solo quando avrò figli. Perché è in Italia che li vogliono far crescere. Lì dove ci sono i valori veri e si cresce sani».