“Ma in realtà cosa stiamo facendo?” mi chiese il Direttore della Comunicazione, con un tono che tradiva un’inquietudine che mi sorprese. “Stiamo dimostrando di non essere colpevoli”, risposi, tentando di nascondere la mia preoccupazione. A Milano, quella domenica sera del 2016 c’era tensione.
Nella grande sala circolare dell’ufficio comunicazione dell’Eni era riunito il crisis team: direttore della comunicazione, capo della comunicazione digitale e social media team, capo ufficio stampa e responsabili di settore, il gruppo che gestiva il sito con il suo responsabile, il reparto IT, il legale, il management. Collegata l’agenzia di comunicazione e data analisys.
Erano trascorse poco più di tre settimane da quando Report, la trasmissione di giornalismo investigativo condotta allora da Milena Gabanelli su Rai3, aveva inviato una mail nella quale richiedeva formalmente un’intervista all’Amministratore delegato per chiedergli conto delle accuse che riguardavano la presunta tangente monstre da più di un miliardo, pagata a Notabili nigeriani per ottenere una concessione petrolifera. Accuse sulle quali la Procura di Milano stava conducendo un’inchiesta che sarebbe sfociata in un processo. Sei anni dopo (nel 2022) le accuse sarebbero tutte cadute, l’AD e l’azienda sarebbero stati assolti con formula piena ma in quel momento quello era un tema caldissimo e pericolosissimo, un tema critico insomma.
Quella mail apriva uno scenario semplice nella sua devastante dannosità: Report avrebbe mandato in onda un servizio nel quale avrebbe riportato, in forma giornalistica e narrativa, l’impianto accusatorio della Procura e scaricato sull’Eni e i suoi manager una valanga di accuse gravi e infamanti.
La mattina successiva alla messa in onda del servizio giornalistico televisivo, i media avrebbero ripreso i contenuti della trasmissione (dei quali avrebbero posseduto prima ampi stralci), ribadendo le accuse. I commenti sui social sarebbero stati un unanime e potente coro di condanna e all’azienda sarebbe rimasta in mano solo la possibilità di rispondere con un comunicato stampa, magari un testo sul sito, qualche post sui social e magari qualche articolo su qualche giornale. Troppo poco, troppo tardi, quasi voler fermare un’onda con le mani. Era la cronaca di una crisi annunciata, di un danno reputazionale profondo e grave. Negli occhi di stakeholders e audiences si sarebbe cristallizzata l’immagine di un’azienda e di un management segnati dalla corruzione.
“Niente intervista”. La frase venne ripetuta più volte nella riunione convocata in tutta fretta non appena giunta la mail. Troppo rischioso concedere un’intervista che non sarebbe stata trasmessa in diretta e che quindi sarebbe stata post prodotta senza alcuna possibilità di controllo. Dall’altra parte in azienda sapevamo molto bene quanto le accuse fossero infondate e questo però non faceva che aumentare la frustrazione. Per il resto si redigeva l’elenco delle contromisure, con la consapevolezza che a poco sarebbero servite.
“Sappiamo che nessuna di queste accuse è vera allora diciamolo chiaramente, rispondiamo sui social a ogni singolo addebito in diretta, dimostriamo di non aver paura del confronto, pubblichiamo la nostra versione dei fatti. Dimostriamo di non essere colpevoli, il digitale ce lo permette, facciamolo” dissi a un certo punto, facendo ammutolire tutti i presenti in sala riunioni.
Nacque così l’idea alla base del caso “Eni vs Report” come venne chiamato dai media. Semplice quanto rivoluzionaria nell’ambito del crisis management: non bastava più rispondere dopo che l’accusa era stata formulata pubblicamente e aveva provocato i danni di cui era capace. Non bastava più solo prepararsi e preparare le risposte con documenti, approfondimenti, pareri legali, dossier, il tutto da veicolare sui media, sul sito istituzionale e sui social, per tentare di fornire le informazioni giuste e correggere quelle non vere.
Era necessario costruire una strategia che non solo informasse ma dimostrasse direttamente a stakeholders e audiences che quel che l’azienda sosteneva fosse vero. Non più solo informazione ma anche rappresentazione, costruzione di un apparato scenico da mostrare a stakeholders e audiences.
Così il solo fatto che un’azienda come l’Eni decidesse di rispondere punto su punto sui social network, in contraddittorio diretto alla trasmissione in onda, fornendo a ogni accusa una risposta motivata che veniva pubblicata utilizzando l’hashtag #report, lo stesso con cui i telespettatori commentavano la trasmissione a cui stavano assistendo (Report era ed è la trasmissione col second screen più vivo dopo le trasmissioni d’intrattenimento), fece la differenza. Il solo fatto di rispondere era la dimostrazione che l’azienda avesse gli argomenti per farlo, cosa che incrinò la granitica credibilità delle inchieste della trasmissione, insinuò il dubbio.
Ciò che distingue il caso Eni vs Report dalle altre modalità di crisis management, a ben vedere, non sono i materiali prodotti, i documenti pubblicati, le risposte approntate e approvate dal management e dai legali, l’utilizzo dei social network e del sito istituzionale, la tempestività e la preparazione.
Tutto questo è patrimonio delle tecniche di crisis management da tempo. La differenza risiede nell’aver costruito una realtà alternativa e credibile, di aver proposto un’altra verità, di aver instillato il dubbio attraverso il valore simbolico della modalità con cui l’azienda ha affrontato la crisi, ha definito la propria postura e come stakeholders e audiences la dovessero percepire. Eni si è mostrata per niente intimorita, rispettosa del lavoro giornalistico ma ferma nelle proprie argomentazioni, anche un po’ contrariata e offesa per la gravità delle accuse e lo ha dimostrato sfidando apertamente la trasmissione, le sue argomentazioni, davanti al suo stesso pubblico, prendendosi quel diritto di replica che la trasmissione non concedeva.
Non contavano le risposte, la completezza dei dati, l’accuratezza e la solidità delle controdeduzioni. Certo, un architetto non potrà mai realizzare il suo progetto senza mattoni, cemento, acciaio, vetro, legno ma sarà come li comporrà, la relazione in cui riuscirà a unirli, l’armonia in cui li immergerà e la maestria di chi concretamente assemblerà il tutto a dar vita all’edificio e sarà non solo il suo aspetto ma le emozioni che provocherà a chi lo osserverà nel suo complesso, a chi lo vivrà, lo userà, a sancire che quel progetto sia potente, convincente, bello e il progettista sia più bravo di altri.
Ovviamente la qualità dei materiali fa la differenza: un legno dozzinale indebolisce la forza complessiva del progetto, così come un cemento scadente. Parimenti le informazioni, i contenuti, le notizie, le argomentazioni sono i mattoni, i materiali da costruzione: migliore la loro qualità e fattura, migliore la resa, ma quel che otterrà o meno il risultato voluto sarà ciò che alla fine gli stakeholders vedranno, il modo in cui l’azienda affronterà il problema, costruirà “l’edificio” della propria reazione.
Quel giorno l’intero team di comunicazione decise di mettere in pratica un nuovo modello di crisis management. Uscimmo da quella riunione con un vero piano operativo, con ruoli e processi ben definiti, con obiettivi da raggiungere e livelli di performance stabiliti per ciascuno.
Rispondemmo a Report rifiutando cortesemente l’intervista in video ma acconsentendo a rispondere per iscritto alle domande che avrebbero voluto porre all’AD. Nel frattempo iniziammo a studiare la struttura del programma: la durata delle dirette da studio, nelle quali Milena Gabanelli introduceva il tema e lanciava i servizi registrati. Approfondimmo la struttura che seguivano, la durata media, i rientri in studio, le pause, il ritmo della trasmissione.
Dopo poco arrivarono le domande, sette, molto complesse e articolate. Deducemmo che rispecchiassero la struttura del servizio, i temi che avrebbe affrontato e le trasformammo in un’ipotesi di storyboard, immaginando, basandoci su quanto avevamo studiato, come sarebbe stato il servizio. Le media relations prepararono le risposte, dettagliate, approfondite che, dopo aver superato tutti i livelli autorizzativi, vennero inviate alla trasmissione. Ma da quegli stessi testi realizzammo un’ampia serie di post social, che per ciascun tema direttamente o indirettamente sollevato dalle domande della redazione di Report, rispondevano con dati, dettagli, posizioni chiare e convinte.
A quel punto iniziò una vera e propria fase di scrittura di una sorta di sceneggiatura. Ci chiedemmo come poter essere il più efficaci possibile. Decidemmo il tono di voce, lo stile che avremmo usato, chiedendoci come stakeholders e audiences si sarebbero aspettati che l’azienda si comportasse.
Capimmo che avremmo avuto bisogno anche di visual e di un “luogo” dove raccogliere un vero e proprio dossier con tutti i documenti, le posizioni, i riferimenti a supporto di quel che avremmo dichiarato a gran voce sui social che, per inciso, erano Twitter (l’attuale X) e Facebook, utilizzando i profili ufficiali dell’azienda. Così venne costruita una ricca e articolata pagina sul sito istituzionale il cui link avremmo inserito nella maggior parte dei post che avremmo pubblicato.
Organizzammo tutti i materiali, i visual, la pagina web. Ci esercitammo, ciascuno nel proprio ruolo, tutto nella massima riservatezza perché avevamo deciso che anche l’effetto sorpresa sarebbe stato più che importante. Decidemmo anche come “iniziare”, come avremmo terminato e cercammo d’immaginare, quasi fosse una partita a scacchi, le possibili contromosse di Report e i possibili commenti dell’audience, preparandoci a gestirli e su questa base decidemmo chi avrebbe dovuto essere al fianco del team operativo, per sostenerlo nel costruire risposte su temi imprevisti o se le risposte della trasmissione ci avessero preso in contropiede.
Sì, perché immaginavamo che ci saremmo confrontati con i social media manager della trasmissione, con i giornalisti e con gli utenti e che, dopo la sorpresa iniziale, avremmo dovuto “combattere una battaglia dialettica” oltretutto sotto gli occhi di tutti e dalla quale non saremmo dovuti uscire sconfitti. Infine capimmo che avremmo avuto bisogno anche di “metterci la faccia” che, nello specifico, fu quella del Direttore della comunicazione.
Quella domenica sera l’intero team prese posizione. C’era chi si occupava di Twitter, chi di Facebook, chi avrebbe monitorato costantemente le reazioni della Rete per guidare le scelte. Il supporto tecnico avrebbe garantito la stabilità della connessione, il team dei web editor quella del sito, le media relations avrebbero monitorato la stampa, pronti eventualmente a rispondere ai giornalisti, l’ufficio legale era pronto a supportare la produzione di risposte all’impronta. Nella stessa stanza ovviamente il management, pronto a prendere decisioni improvvise ove ce ne fosse stato bisogno. In realtà era come se nella stanza ci fossero tre team diversi: uno strategico decisionale, una content factory e un team tecnico di supporto.
Su tutti incombevano alcuni schermi televisivi. In piedi io, con una cartellina in mano su cui erano riportati tutti i post che avevamo preparato, numerati. Durante lo svolgersi della trasmissione sarebbe bastato chiamare il numero per far sì che su Twitter e Facebook venisse pubblicato, grazie ai colleghi, il contenuto più adatto a rispondere alla precisa argomentazione che in quel momento andava in onda.
Durante la sigla lanciammo, come avevamo programmato, il primo tweet: “@reportrai3 oggi parla di #eni. Qui il dossier con le nostre info, anche quelle che la trasmissione non vi dirà (link alla pagina web)”, seguito immediatamente da uno molto simile ma dal taglio più ironico, dal profilo personale del Direttore comunicazione e da quel momento iniziammo a rispondere colpo su colpo: il giornalista nel servizio muoveva un’accusa, un sospetto, poneva una domanda, proponeva fatti e noi rispondevamo immediatamente in maniera mirata ed efficace, fornendo anche dati e documenti a supporto, sempre. Improvvisammo anche alcune risposte all’impronta a singoli utenti, utilizzando sempre i dati e lo stesso tono di voce.
Andò bene. Report non presidiava i propri canali social durante la trasmissione, tantomeno l’hashtag, così il confronto dialettico non avvenne. Rispose il direttore di Rai3 ma al nostro Direttore comunicazione, che rilanciava i contenuti dei profili aziendali e, dopo molto tempo, la stessa Milena Gabanelli, evidenziando che non avevamo accettato l’intervista. Fu facile sottolineare che non di vero dibattito si sarebbe trattato ma di un’intervista registrata, senza vera possibilità di replica.
Dopo poco molti influencers si accorsero dello scambio fra Report ed Eni ed entrarono nella conversazione, inducendo gli algoritmi delle piattaforme ad aumentare la visibilità dell’hashtag che andò velocemente in trend. Seguirono le prime testate online e ci rendemmo conto immediatamente che la “notizia” non era la maxi tangente ma il fatto stesso che l’azienda stesse rispondendo. Il giorno dopo la copertura mediatica fu ampia e univoca: il tema era il modello di risposta, il caso Eni vs Report, del tema critico non ci fu più traccia, la strategia aveva funzionato.
Quella domenica sera del 2016 nacque il primo nucleo del Modello di Risposta alle Crisi Reputazionali – MRCR – che questo libro propone in un formato definitivo e articolato. Dopo quell’episodio mi sono trovato a gestire molte altre situazioni di crisi, sia per l’Eni che, dopo la mia uscita, per altre aziende in svariati settori (incrociando il fioretto altre tre volte, sinora, con Report): farmaceutico, food, energia, chimica, manifatturiero, utilities, finanza, pubblica amministrazione, Governo, sino a singoli personaggi: politici, uomini e donne di spettacolo e di sport, esponenti delle Istituzioni, managers, imprenditori.
In tutti i casi ho applicato, raffinato e sviluppato questo modello. Contemporaneamente approfondivo gli studi teorici trovando corrispondenze, conferme e supporto scientifico nei lavori di molti autori, che ritroverete tutti in questo testo, e in particolare in quelli di Timothy Coombs. Ma perché un nuovo modello di risposta alle crisi e perché alla crisi reputazionali?
Perché è necessario capire come sia possibile che da un post mal interpretato, da una campagna pubblicitaria non a fuoco, da una parola sbagliata di un manager, da una frase non univocamente interpretabile possano nascere crisi, a volte travolgenti e perché viceversa situazioni gravi, scandali, incidenti a volte con vittime e feriti, non le facciano nascere.
Cosa è cambiato? Tutto si può rispondere, senza timore di smentita. Siamo infatti transitati da un sistema basato su mezzi di comunicazione di massa e opinione pubblica a un ecosistema, l’infosfera, dove chiunque, dal singolo all’azienda, passando per i personaggi e le Istituzioni, sono interconessi e interdipendenti, i processi di comunicazione sono collettivi e dove qualsiasi evento, qualsiasi fatto può causare una crisi.
Una crisi che mette a rischio il bene più prezioso, l’asset immateriale principale di ogni organizzazione, soggetto, persona: la reputazione. Semplicemente perché nell’Infosfera la crisi è ciò che stakeholders e audiences decidono che sia tale. Una valutazione che si basa sulla percezione, sull’interpretazione, sulla costruzione di senso che collettivamente i contesti sociali sviluppano su un fatto, qualsiasi fatto e incide sul giudizio che questi stessi contesti sociali hanno di quel soggetto, ovvero, appunto, la reputazione.
Da qui l’assunto che oggi le crisi hanno sempre e comunque un impatto reputazionale e per affrontarle è necessario un modello dedicato: tecniche, procedure, ruoli, strumenti specifici. Modello che è lo scopo di questo lavoro. Questa nuova dinamica delle crisi, infatti, ha ribaltato il paradigma sul quale si era sempre basata la teoria del crisis management, fondata sull’impatto mediatico di un fatto o un evento: ciò che fa notizia può diventare crisi, ciò che non è notiziabile non sarà mai una crisi.
Assumendo che il processo di trasformazione di un fatto in notizia giornalistica segue regole precise e codificate, ci si trovava di fronte a un modello deterministico di cosa fosse una crisi e i modelli di gestione e reazione discendevano da questo.
In un ecosistema come l’attuale, l’Infosfera, in cui i media hanno perso il monopolio dell’interpretazione e della narrazione del reale e anzi questa narrazione si è trasformata in un processo collettivo e sociale, autogenerato dall’interdipendenza e dalle influenze reciproche di tutti i soggetti che costituiscono l’infosfera stessa, qualsiasi fatto collegabile a un soggetto (che sia un singolo o un’organizzazione) è visibile e giudicabile e se percepito come contrario ai valori o minaccioso per gli interessi di stakeholders e audiences può innescare una crisi.
Così ogni fatto, sia che si tratti di un grave incidente o di uno spot sbagliato o di una dichiarazione può diventare innesco di una crisi, indipendentemente dalla sua capacità di essere giornalisticamente rilevante. Tutto dipende da come il fatto venga collettivamente percepito e quindi interpretato.
Ma cosa comporta un giudizio negativo? L’elemento centrale dell’Infosfera è, come dicevamo prima, la reputazione, il giudizio collettivo che si forma su ogni soggetto, singolo od organizzazione e ne determina la capacità di agire e interagire, di essere accettato e scelto, in poche parole di “esistere” in un contesto sociale e in un mercato. Il giudizio negativo provoca un danno reputazionale, incide cioè sul giudizio che stakeholders e audiences (=l’infosfera) hanno del soggetto, modificandolo traumaticamente e influendo pesantemente sulla sua capacità di agire nel mercato o nel contesto di riferimento.
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Da questo deriva l’assunto citato prima: nell’Infosfera esistono solo crisi reputazionali o meglio le crisi sono tali solo se hanno una dimensione, un impatto reputazionale. È ovvio che se ci troviamo di fronte a un evento che ha conseguenze tangibili e traumatiche come un incidente, un malfunzionamento o qualsiasi cosa danneggi o interrompa il normale ciclo produttivo di un’organizzazione, questo comporta danni economici a volte anche gravi ma ciò che impatterà maggiormente sarà come stakeholders e audiences valuteranno quell’evento, come lo interpreteranno, come giudicheranno il modo in cui l’organizzazione – o il singolo – reagisce e “pone rimedio”.
Se il giudizio sarà negativo e quindi la compromissione sarà reputazionale, l’organizzazione, anche dopo aver sanato i danni tangibili (e averne sostenuto i costi) potrebbe non avere più un mercato dove gire, non godere più della fiducia di investitori, fornitori, istituzioni, clienti.
Riprendendo la definizione riportata prima, seguendo questo ragionamento, appare evidente come il concetto di crisi sia cosa diversa dal fatto in sé. Non dipende più da ciò che effettivamente sta accadendo o è accaduto, dal tipo di evento tangibile o meno, che provochi danni fisici all’organizzazione o a terzi, ma da ciò che stakeholders e audiences credono sia accaduto o stia accadendo e dal giudizio che formulano, a partire dall’attribuzione delle responsabilità che, vedremo, rappresenta l’architrave di ciò che si possa definire crisi.
La crisi non è ciò che è ma ciò che sembra essere agli stakeholder e alle audiences e per affrontarla è necessario agire sulla percezione del fatto, non sul fatto in sé. Questo assunto è l’elemento centrale del Modello di Risposta alle Crisi Reputazionali.
Da tutto questo discende che non esista un modello deterministico per definire cosa possa innescare una crisi e cosa no e utilizza invece un modello probabilistico che, in funzione di una serie di fattori, definisce cosa probabilmente verrà vissuto come una grave lesione reputazionale da parte di stakeholders e audiences, a partire dall’analisi di quale sia l’elemento percepito come lesivo dei valori o minaccioso per gli interessi. A partire da questo, il MRCR prevede una serie di tecniche operative e di strumenti da utilizzare, comprese le soluzioni basate sull’Intelligenza Artificiale.
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Tutto il Modello ha l’obiettivo di contrastare e modificare il percepito negativo che un evento o un fatto hanno provocato in stakeholders e audiences, attraverso la costruzione di una strategia di risposta che rappresenti essa stessa un complesso apparato simbolico in grado di modificare questo stesso percepito e quindi di difendere e ripristinare la reputazione dell’organizzazione o del soggetto.
Nel caso Eni vs Report qual era l’elemento da contrastare? La convinzione che si sarebbe formata in stakeholders e audiences che l’azienda e i suoi manager fossero corruttori, grazie alla forza rappresentativa e simbolica di una affermata e credibile trasmissione televisiva di giornalismo investigativo e di una sua inchiesta. Una convinzione che sarebbe stato assai difficile se non impossibile far cambiare fornendo solo informazioni, dati, risposte per quanto ben costruite e solide. Serviva rispondere con un apparato simbolico di pari forza, in grado di influenzare e far cambiare la convinzione di stakeholders e audiences. Un apparato simbolico in grado di influenzare, governare la percezione.
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Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro “Crisi reputazionali ai tempi dell’infosfera”, edito da Franco Angeli, di Daniele Chieffi, giornalista, comunicatore e docente universitario. Chieffi è stato il direttore della Comunicazione del Ministero dell’Innovazione, ha guidato il team di comunicazione digitale di Eni e quello di UniCredit e in questi ruoli ha gestito direttamente diverse issues critiche. Professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, gli Istituti Universitari Salesiani di Venezia e Torino e la Scuola Nazionale della Pubblica Amministrazione, è autore di molti testi sui temi della reputazione, comunicazione e crisis management.