Chi cerca vita aliena ha un grosso problema perché non sa esattamente cosa cercare. Visto che conosciamo solo la vita che si è sviluppata sul pianeta Terra, ci sembra naturale usarla come esempio oppure come pietra di paragone. Ma, chi ci assicura che altre possibili forme di vita che si sono sviluppate altrove siano simili a quelle che conosciamo sul nostro pianeta? D’altro canto, siamo veramente sicuri che, esplorando un altro pianeta, sapremmo riconoscere i segnali di una vita di tipo terrestre? Per rispondere a questa domanda il grande Carl Sagan nel 1990 decise di utilizzare la sonda Galileo della NASA per dare una risposta ad un insolito quesito “Esiste vita sulla Terra?”.
Con un indubbio lampo di genio, Carl Sagan aveva pensato di usare l’unico esempio di pianeta ove fosse certificata la presenza di vita vegetale e animale, semplice e complessa, per mettere alla prova la capacità di indagine dei suoi strumenti che erano stati progettati per studiare le lune di Giove.
Perché Carl Sagan cercava alieni sulla Terra
L’occasione era fornita dal passaggio ravvicinato della sonda Galileo che, seguendo una complessa traiettoria verso Giove, avrebbe sorvolato la Terra per carpire un po’ di energia a spese del campo gravitazionale del nostro pianeta. Si chiama frusta gravitazionale ed è una manovra spesso usata per minimizzare l’energia richiesta nei viaggi delle sonde interplanetarie: invece di bruciare carburante si seguono traiettorie che permettano di sfruttare il campo gravitazionale dei pianeti.
Galileo, per prendere la rincorsa verso Giove, ha sorvolato prima Venere e poi la Terra, offrendo a Sagan l’occasione che cercava. Si trattava semplicemente di accendere gli strumenti di bordo durante la manovra di fly-by e fare le stesse sequenze di osservazioni che gli strumenti avrebbero poi fatto una volta giunti a destinazione duranti i passaggi ravvicinati alle lune di Giove. Galileo ha così raccolto immagini della superficie terrestre, ha studiato la composizione dell’atmosfera e ha misurato i segnali radio emessi dal nostro pianeta.
Il tempo a disposizione è poco più di mezz’ora durante il quale la sonda, viaggiando a più di 13 km al secondo, si è avvicinata sorvolando il nord Africa, che era già al buio, si è abbassata fino a 960 km di altezza sopra il mar dei Caraibi ed è ripartita verso l’Oceano Pacifico. Immagini ad alta risoluzione dell’Antartide e dell’Australia, prese da 15.000 km di altezza sopra la parte Sud dell’Oceano Pacifico, quando 1 pixel delle immagini corrispondeva a circa 1 km sulla Terra, non hanno rivelato niente di interessante.
Come avrebbero potuto? Le distese di ghiaccio dell’Antartide e i deserti australiani non mostrano certo segni di presenza umana. La situazione sarebbe stata diverse se la sonda avesse sorvolato la regione parigina oppure New York o la grande muraglia, ma la navigazione interplanetaria, unita alla volontà di minimizzare i pericoli di impatto di una sonda con un generatore di energia contenente qualche chilo di Plutonio, ha offerto pochi soggetti all’indagine fotografica.
In effetti, non bisogna dimenticare che su 100 foto aeree scattate di giorno sopra un punto qualsiasi della Terra, solo una (in media) mostrerebbe qualche opera umana. Scordiamoci le macchine fotografiche e vediamo i dati degli altri strumenti. L’analisi della composizione dell’atmosfera è interessante perché mostra, oltre alla presenza di ossigeno, di acqua e di anidride carbonica, una spropositata presenza di metano, infinitamente superiore a quanto ci si potrebbe aspettare in base alla sola chimica dei gas componenti l’atmosfera. Il metano, che noi sappiamo essere prodotto dai vegetali e dagli animali, è la prova sicura della presenza di qualche tipo di vita sulla Terra.
Non stupisce che la notizia della rivelazione di tracce di metano su Marte abbia sollevato così grande interesse tra gli scienziati che cercano tracce di vita sul pianeta rosso. Sono state, però, le antenne di Galileo a fornire il dato più straordinario rivelando segnali radio non riconducibili a emissioni naturali. I segnali sono sicuramente di provenienza terrestre perché la loro intensità aumenta durante l’avvicinamento della sonda.
Si tratta di emissione modulata a frequenza costante mai osservata in natura che fa pensare ad una civiltà tecnologicamente avanzata. Le antenne di Galileo avevano chiaramente intercettato qualche stazione televisiva. Anche se l’antenna non era riuscita a decodificare il segnale, era questa la prova sicura dell’esistenza di vita intelligente sulla Terra.
La vista non basta, servono le antenne
Carl Sagan aveva così dimostrato che il progetto SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence) aveva avuto ragione a puntare sul canale radio per le sue osservazioni. In effetti, Sagan, che era un sostenitore delle ricerche di segnali da civiltà extreterrestri, aveva chiarissimo che una volta trovato un segnale potenzialmente interessante sarebbe stato necessario decodificarlo. Vi ricordate Contact con la splendida Jodie Foster? Il film si basa proprio su un romanzo di Carl Sagan.
Diciamo che in oltre 60 anni di ricerche SETI questa necessità non c’è mai stata perché non è stato mai ricevuto un segnale abbastanza convincente ma, per non arrugginirsi, occorre fare pratica. Per fornire all’umanità un’occasione di esercitare le capacità necessarie per decodificare un messaggio misterioso, Daniela De Paulis ed il suo gruppo di scienziati-artisti ha concepito il progetto A Sign in Space del quale abbiamo parlato lo scorso anno.
Il messaggio, inviato dall’orbita marziana dalla sonda TGO dell’ESA il 24 maggio dello scorso anno è stato finalmente decodificato il 7 giugno scorso da un team investigativo composto da un padre e da una figlia (che hanno chiesto di rimanere anonimi).
Il padre ha presentato la soluzione con queste parole: “Il mio messaggio decodificato è una semplice immagine con 5 amminoacidi visualizzati in una notazione universale (si spera) di diagramma molecolare organico”. Il passo fondamentale è stato riconoscere i “blocchi” di 1, 6, 7 o 8 “pixel” che rappresentano il numero atomico di idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno che costituiscono i componenti fondamentali delle molecole organiche.