«Da piccolo, in effetti, ero più uno spaventatore. Se penso agli scherzi che ho fatto a mia sorella. Oggi invece non apprezzo quell’horror fatto di jump scare». Nella giornata di Halloween non potevamo mancare all’appuntamento con i videogiochi. Luca Dalcò, founder e direttore della software house italiana LKA, ci ha spiegato come si lavora con la paura quando c’è il codice di mezzo. «A dire il vero io sono nato in un ambiente diverso: ho studiato meccanica e poi mi sono ritrovato a lavorare nel teatro come scenografo. Facevamo opere in grandi spazi con proiezioni di immagini. Arena di Verona, Terme di Caracalla. Mi ha permesso di fare esperienza con la grafica 3D ed è stato in quel momento che ho messo mano per la prima volta al game engine».
Un videogioco nato dall’incontro. Con un luogo
Classe 1969, nato a Firenze, Luca Dalcò si considera in realtà romano (e anche l’accento gli dà ragione). La sua casa di sviluppo ha lavorato finora su due titoli: The Town of Light e Martha Is Dead (qui trovate la nostra recensione). Entrambi sono titoli che costringono il gamer a misurarsi con le proprie paure, ma arricchiscono l’esperienza con uno sfondo storico stimolante. In un caso (The Town of Light) siamo nel manicomio di Volterra, nell’altro nella Toscana anni Quaranta, mentre è in corso la Seconda Guerra Mondiale.
Come si diventa sviluppatori di una nicchia videoludica simile? «Il sogno nel cassetto lo avevo fin da quando ero ragazzino: fare lo sviluppatore». La svolta, anzi, l’opportunità si è manifestata nel 2013, quando Dalcò insegnava all’Università di Architettura di Firenze, dove stava trattando dell’engine Unity. «Alcuni ragazzi si sono appassionati e, attraverso stage e tesi di laurea, è nato un gruppetto di persone poi diventato il core team di LKA». Non è certo la prima volta che prof e studenti mettono in piedi una startup.
Ma quali sono i videogiochi preferiti di Dalcò? «Mi piacciono i simulatori di guida e gli sparatutto. Forse per un fatto generazionale non sono mai riuscito a intendere il videogioco come media narrativo. E penso sia proprio per questo che ho sentito la pulsione di farlo». Il mercato ha i suoi mostri sacri: Resident Evil, Silent Hill, Outlast, Dead Space e P.T (impossibile tralasciare la demo giocabile di Hideo Kojima e Guillermo del Toro che ha lasciato un’impronta grazie alla sua atmosfera inquietante). La chiave di LKA è non partire dall’orrore. «I jump scare hanno senz’altro la loro dignità, ma sono più attratto dall’horror psicologico. Quello usato non come fine, ma mezzo per raccontare una storia».
Ed è da una storia personale che bisogna partire per conoscere la genesi di The Town of Light. «Conoscevo bene la zona di Volterra perché, quando ero ragazzo, ci capitavo spesso con mio padre. Dopo tanti anni ci sono tornato con la famiglia. Alla sera, per caso, googlando, mi è caduto l’occhio su uno dei più grandi manicomi italiani, a Volterra. Non ho potuto resistere: ci sono tornato il giorno successivo. Ho davvero incontrato un luogo, un posto meraviglioso sotto certi aspetti. Era marzo e ho voluto ricreare proprio quell’esatta atmosfera nel videogioco».
Luca Dalcò non è partito subito con l’idea di farci un titolo. «Ho seguito le emozioni. Per il level design il posto era perfetto. A un certo punto ho detto: vediamo dove Unity può spingersi». E così il progetto si è concretizzato anzitutto in una ricostruzione storica meticolosa. «Non avrei mai voluto mancare di rispetto o proporre cose che non corrispondessero alla realtà. Per esperienza personale conosco il tema della salute mentale».
Dal manicomio alla guerra: come raccontare la sofferenza
Dopo il buon riscontro di The Town of Light LKA si è messa al lavoro su Martha Is Dead. «Ci siamo permessi maggiore libertà creativa, pur rifacendoci al contesto storico. Abbiamo deciso di introdurre la guerra come elemento divisivo. Mi piace avere posizioni che non siano troppo populiste e mi piace toccare la controversia».
L’orrore è frutto di ciò che è inspiegabile e sconcertante per la scienza. Per questo Dalcò si è appoggiato anche ad altro materiale narrativo. «Per costruire la leggenda della dama, con origini più tedesche, ho preso vari spunti. La grande utilità di fare ricerca è entrare ancora più a fondo nel periodo. Da una parte c’è la storia, dall’altra è bello poi conoscere la vita di tutti i giorni. Capisci molto dal folklore, dai racconti, da fonti meno ufficiali».
L’orrore non è il punto di partenza. «Non si parte mai dall’idea di fare l’orrore. Come dicevo, l’orrore è molto bello da usare come strumento per raccontare. Dove entra in gioco la sofferenza vera, che è molto legata ai disturbi mentali, l’orrore interviene come strumento fondamentale. C’è una scena in Martha is Dead particolarmente disturbante. È uno strumento raffinato».
In conclusione Luca Dalcò si sofferma su un argomento divisivo: le frequenti critiche ai videogiochi perché, secondo alcuni, diseducativi e osceni. «Se devo esser sincero non mi piace schierarmi come il difensore a priori dei videogiochi. Tutte le forme di espressione possono avere aspetti oscuri. Credo che la tematica sia complessa, ma vada affrontata con onestà intellettuale, non ideologicamente come succede in Italia». Su una cosa è sicuro: «Il videogioco merita più attenzione sull’eventuale pericolosità perché è un media potente, interattivo. È una meraviglia sotto tutti gli aspetti. Come il cinema lo è stato ai suoi tempi».