Chi di voi conosce Vera Brandes? Brandes è direttrice del programma di ricerca sulla musicoterapia presso la Paracelsus Medical University di Salisburgo. È vicepresidente dell’International Association for Music and Medicine di New York. Membro del consiglio direttivo dell’International Music and Arts Research Association in Austria.
Lo sterminato CV di Vera Brandes
E non è finita, perché Vera Brandes è anche direttrice del programma internazionale per il Mozart & Science Congress e membro del comitato consultivo scientifico del Fritz Albert Popp Institute. Brandes è stata una produttrice musicale pluripremiata e proprietaria della casa discografica VeraBra Music. Tra il 1974 e il 1999 ha pubblicato più di 350 CD con l’etichetta veraBra Records e ha promosso una moltitudine di concerti, tour e festival.
Fallimenti? Non pervenuti. Su LinkedIn ha aggiornato il suo profilo: è attualmente in anno sabbatico. La sua fama, per i non addetti ai lavori, è legata a un episodio che le ha consentito di aggiungere al suo curriculum vitae titoli e traguardi incredibili. Ma che avrebbe potuto incidere negativamente sul suo futuro se gli eventi avessero preso una piega diversa.
Brandes è considerata la più giovane promoter di concerti in Germania. La sua carriera ha inizio a 17 anni quando, da studentessa a Colonia e appassionata di musica jazz, diventa organizzatrice di concerti nel tempo libero. Grazie all’amicizia con la moglie di un giornalista del Berlin Jazz Festival riesce a partecipare ai principali concerti jazz e a farsi invitare dietro le quinte.
Quando un concerto ti cambia la vita
È qui che incontra il musicista tedesco e producer Manfred Eicher e tutti i musicisti che all’epoca registravano per la ECM. Nel 1974 assume un incarico come responsabile della serie di concerti New Jazz in Köln, ma il quinto della serie è quello dei suoi sogni. Un concerto con un famosissimo pianista. La data è fissata: il 24 gennaio 1975.
Il luogo anche: l’Oper Köln di Colonia. Tutti i 1400 biglietti sono stati venduti. Il concerto fa il tutto esaurito nel giro di poche ore. Brandes non poteva sperare di meglio. Cosa mai potrebbe andare storto? Alle 23 e 30 uno dei più talentuosi jezzisti al mondo, Keith Jarrett, cresciuto alla corte di Miles Davis, sarebbe salito sul palco e avrebbe incantato la platea. Fine della storia.
Se qualcosa può andare male, lo farà
Jarrett aveva appena 29 anni ma era già famosissimo. A 3 anni suonava, a 7 anni dette il suo primo concerto suonando brani alcuni dei quali improvvisati, a 17 anni costituisce il suo primo trio, a 25 anni ottenne una ambitissima borsa di studio. Non ancora ventenne poteva vantare prestigiose collaborazioni e unanimi consensi. Nel 1970 incise 3 album: Live- Evil, Live At Fillmore e Get Up With it con il grande Miles Davis.
Il 1975 sarebbe stato il suo anno di debutto in Europa con la sua prima tournée da solo. Jarrett arriva a Colonia nel pomeriggio del 24 gennaio, in un gelido giorno di pioggia. Non era nelle sue migliori condizioni psicofisiche: non dormiva da due giorni a causa, pare, di una intossicazione alimentare e aveva un mal di schiena insopportabile. Era partito da Losanna la sera prima. Invece di imbarcarsi su un volo già prenotato dalla giovane Brandes, partì in auto. Arrivò, insieme al suo manager, la moglie e il figlio, all’Oper Köln dopo un viaggio di più di 7 ore in una Renault 4 poco confortevole.
Al suo arrivo volle essere accompagno a teatro per le prove. Con lui il suo produttore, Eicher che la giovane produttrice di Colonia aveva conosciuto qualche tempo prima. Il jazzista salì sul palco. Al posto del suo pianoforte preferito, uno Steinway, sperava di trovare un pianoforte a coda Bösendorfer 290 Imperial. E invece trovò dietro le quinte due diversi modelli di Bösendorfer. Scelse uno dei due, quello più grande. E andò via insieme agli organizzatori.
Qualche ora prima del concerto, volle nuovamente provare il piano. Ma al suo posto trovò il Bösendorfer più piccolo che veniva usato solo per le prove del teatro d’opera. Non era solo la dimensione a essere un problema.
Eicher ricorda quel momento con queste parole «Keith suonò qualche nota. Poi feci lo stesso». Entrambi non proferirono parola. Aspettarono qualche secondo e poi provarono di nuovo. Di nuovo silenzio. Finché il silenzio non venne riempito dalle parole di Eicher. «Se non salta fuori un altro piano Keith non può esibirsi». Quel piccolissimo Bösendorfer era completamente scordato, con i tasti neri centrali che non funzionavano e i pedali che rimanevano bloccati. Insuonabile. Lo stesso Jarrett in seguito descriverà lo strumento come «un piano di sette piedi che non veniva accordato da molto e che emetteva un suono che sembrava una pessima imitazione di un clavicembalo o di un piano con dentro delle puntine».
Se qualcosa può andare male, lo farà in triplice copia
Brandes era lì, senza parole. Il compito di procurare il modello di piano che Jarrett le aveva richiesto era dei responsabili dell’Opera, un luogo prestigioso che non aveva mai ospitato un concerto jazz. Non è chiaro se dimenticarono la richiesta, se fecero finta di nulla, o non riuscirono a trovare il modello concordato. In ogni caso certamente non informarono Brandes del fatto che la richiesta non poteva essere soddisfatta.
Brandes, in preda al panico, cerca disperatamente di trovare una soluzione. Allerta lo staff amministrativo dell’Opera, ma tutti erano già andati a casa. Cerca allora il Bösendorfer più grande, ma i trasportatori lo avevano già portato via.
Trova un telefono e contatta chiunque potesse avere un pianoforte. Trova un Bösendorfer in un altro teatro, ma qualcuno doveva andare a ritirarlo. Riesce a convincere alcuni amici di aiutarlo a spingere il piano per le strade di Colonia.
Il gruppo sta per avviarsi, quandol’accordatore che Brandes aveva chiamato arriva e le dice se avesse 50000 marchi sul suo conto corrente. La ragazza perplessa chiese il perché.
«Perché se fai trasportare quel pianoforte da non professionisti, sotto la pioggia, non solamente Jarrett non avrà un pianoforte da suonare ma nessuno potrà mai più suonare quel pianoforte. E tu dovrai ripagarlo». Anche il meteo, quel giorno, sembra volerla mettere alla prova. Piove e la pioggia avrebbe potuto danneggiare il pianoforte.
All’ultimo momento si riuscì a sistemare l’accordatura del piccolo Bösendorfer collocato sul palco. Ma quel piano, piccolo per le dimensioni del teatro, non era in grado di produrre un suono così forte da poter essere udito da tutti. Sorte avversa.
Jarrett suona un po’ per sentire l’effetto che fa nella sala, cerca di immaginare il modo in cui il suono arriverà al pubblico. Il suono è metallico e non ancora abbastanza forte. Si confronta con il suo manager e decide di andare via. Jarrett non si sarebbe esibito quella sera. Per Jarrett «un’artista che crea spontaneamente qualcosa è governato dall’atmosfera, dal pubblico, dal luogo (sia la stanza che la posizione geografica), dallo strumento. Ma l’artista è responsabile di ogni secondo: il successo o il fallimento appartengano completamente all’artista stesso». È per questo che l’artista deve sapere quando dire no. Per Brandes un sogno che si infrange a un solo passo dal suo raggiungimento.
Quando Brandes vide Jarrett allontanarsi capì che non avrebbe avuto una seconda possibilità e la prima se la sarebbe giocata fino alla fine. Scende dal palco e corre disperata fuori da teatro. Jarrett era seduto in auto, pronto per rientrare in hotel. Piove a dirotto. La diciannovenne fece forse l’unica cosa possibile: implorare all’artista di suonare per il pubblico, per lei. Il giovane pianista osserva la scena. Una ragazzina sotto la pioggia, bagnata fradicia, lo supplica di suonare. «Non dimenticarlo mai. Lo faccio solo per te» le dice.
Non si può cadere dal pavimento
Prima del concerto, Jarrett viene accompagnato in un ristorante italiano dove, come racconterà più tardi, «per qualche ragione perfettamente simmetrica, siamo stati serviti per ultimi. Tutti gli altri stavano mangiando, ero io quello che avrebbe suonato di lì a un’ora e non avevo ancora mangiato niente. E poi quando finalmente hanno portato il cibo, avevo ancora fame, perché non ero soddisfatto del cibo che avevano servito».
Terminata la cena si recò all’Opera. Nel 1979, Jarrett raccontò al giornalista Don Heckman quello che accadde qualche minuto prima di andare in scena. «Tutto quello che ricordo dopo il fiasco di quel giorno è che dissi a me stesso: lo farò. Ricordo di aver alzato il pugno in aria mentre uscivo dal backstage. Ho guardato Manfred e dissi Power!».
Avrebbe potuto non suonare. Ma suonò
È quasi mezzanotte, Jarrett si dirige verso il pianoforte insuonabile. Si siede al Bösendorfer, senza prove né spartiti. L’Opera è gremita. Comincia a suonare.
«Suona la prima nota e immediatamente tutti capiscono che stanno per assistere a un evento eccezionale. Jarrett dovette davvero suonare il piano con molto impeto in modo che le note potessero raggiungere le balconate», ricorda Brandes. «Spinse su quei tasti come non mai».
Come scrive A. Balossino «Jarrett affrontava il pianoforte completamente alla cieca, senza l’ausilio di alcun supporto, in una sorta di improvvisazione totale che faceva leva non solo sulla sua esperienza nel jazz ma anche sulla sua solidissima preparazione classica».
Jarrett è un improvvisatore. Improvvisare significa comporre senza partitura. Se suonare solo quello che la mente suggerisce è una sfida, figuriamoci farlo con uno strumento stonato. Compito reso ancora più arduo quando il musicista è un perfezionista, noto per i suoi standard artistici senza compromessi. Si racconta che, per assicurarsi silenzio in sala, prima dei concerti distribuisse caramelle per evitare che il pubblico tossisse durante la sua esibizione.
Ma quel giorno «cercai di fare buon viso a cattiva sorte. Alla fine quello fu il mio concerto più leggendario perché, non potendo innamorarmi di quel pianoforte, provai a tirare fuori da lui il meglio. In qualche modo sentivo che dovevo far emergere qualunque qualità avesse questo strumento». Jarrett non improvvisò uno spartito ma cercò di domare le note imperfette di uno strumento malandato. Modificò il suo stile di esecuzione durante il concerto, per valorizzare le note al centro della tastiera che erano meglio messe.
Le imperfezioni del pianoforte di fatto lo hanno aiutato a raggiungere un successo inaspettato. Avrebbe potuto non suonare. Ma suonò. Avrebbe potuto non suonare perché il pianoforte non era adatto. Ma suonò in modo incredibile. Avrebbe potuto non suonare perché fino a quel momento tutto era andato storto. Ma suonò, dicono, con una energia e una intensità mai viste. Avrebbe potuto non suonare. Ma la rivista Time premiò quel concerto con il Record of the Year Award. Avrebbe potuto non suonare. Ma The Köln Concert è il disco più venduto della storia della musica jazz. Avrebbe potuto non suonare. Ma scelse di farlo.
E scelse di suonare ancora quando molti anni dopo, nel 1998, registrò il suo album After the fall nonostante la sua malattia lo avesse tenuto lontano dal palco per due anni e gli impedisse di suonare il pianoforte più di 2 ore di seguito.
E scelse di suonare ancora quando registrò The Melody of a Night with you, il suo regalo di Natale alla moglie Rose Anne, di origine italiana. Un dono realizzato con dedizione quasi ossessiva, suonando appena una manciata di minuti al giorno. Due o tre minuti, il limite estremo che le sue dita doloranti riuscivano, per amore, a sopportare.
Quando incontrerete pianoforti scordati, giornate storte, condizioni inadeguate o piani imperfetti, non fermatevi. Continuate a suonare.
Le 3 regole d’oro
Le 3 regole d’oro le ricaviamo dalle parole dello stesso Keith Jarrett.
Prima regola: Gli imprevisti e le difficoltà sono parte integrante del processo creativo. «Un vero artista è colui che è consapevole dell’impossibilità del suo compito e nonostante ciò continua a farlo». I limiti dei nostri mezzi espressivi sono, a volte, solo un alibi per non fare le cose, un comodo rifugio per la nostra inerzia.
Seconda regola: Essere presenti nel momento in cui gli eventi accadono. «Il jazz è lì e poi se ne va. Succede. Devi esserci nel momento. Semplicemente». Stare nel qui e ora migliora la concentrazione, aumenta la produttività, stimola la creatività e la ricerca di soluzioni ai problemi. Ma soprattutto stare nel qui ed ora limita gli errori.
Terza regola: Focalizzarsi non sul risultato, ma sul processo. «Abbiamo bisogno di ascoltare il processo di un musicista che lavora su sé stesso. Non abbiamo bisogno di ascoltare chi è più bravo con i sintetizzatori». Non è come suoni ad essere importante, ma come ci arrivi. Il pubblico non compra prodotti ma storie. Le storie più potenti non si contano, si sentono.
E voi che lezione avete appreso? Se volete raccontarmi la vostra storia di fallimenti e lezioni apprese, scrivetemi qui: redazione -chiocciola – startupitalia.eu