Da una parte le istituzioni: l’Osservatore Romano, la Sala Stampa vaticana, gli Angelus del Papa e tutte quelle occasioni ufficiali in cui la Chiesa si manifesta. Dall’altra un mondo decisamente più movimentato, dove ciascuno ha il proprio stile, interagisce con il pubblico con tanto di balletti e spesso non vuole prendersi sul serio. Con buona pace dei critici che parlano di un nuovo protagonismo da parte dei preti attivi sui social. «Ho ricevuto critiche, ma sono sempre meno. Le persone vedono che faccio bene la mia parte. Aggiungo poi che il rischio di protagonismo vale per tutti: i preti sono esposti socialmente anche se non hanno un’esposizione mediatica. Hanno un ruolo di potere, sono un po’ come i Ceo di un’azienda. Un prete deve starci attento, non perché sta sui social. Ci sono preti narcisisti che non hanno i social».
Don Alberto Ravagnani, 31 anni, è prete dal 2018. Cresciuto a Brugherio, è stato a Busto Arsizio per diversi anni, e da un po’ di tempo lavora presso la Chiesa di San Gottardo al Corso, a Milano. Come per molti content creator – sì, si può usare questo termine anche per un ministro del culto – l’assist per cominciare è arrivato durante la pandemia, quando non soltanto le scuole e le aziende erano deserte per via del lockdown. Ma anche le chiese.
La scelta di Don Alberto Ravagnani
«Ho iniziato per caso – ci spiega Don Alberto Ravagnani -. Con l’oratorio chiuso per via del Covid dovevo superare le distanze. Così ho fatto un video al giorno, e mi son reso conto che stavo imparando un linguaggio molto interessante». C’è un contenuto che l’ha reso virale o che gli ha fatto capire che quegli sforzi potevano raggiungere più persone? «Su YouTube ho pubblicato un video in cui parlavo della preghiera, a cosa serve pregare». Il resto è venuto di conseguenza.
Il rischio meme e presa in giro è dietro l’angolo, soprattutto se si dà in pasto ai social un qualcosa di così intimo e personale come la fede. Ma per evangelizzare, alla fine, bisogna rivolgersi non a chi crede, bensì alle persone che non frequentano nè messe, nè oratori. A questo punto, però, facciamo gli avvocati del diavolo: la Chiesa non ha un problema con la comunicazione? «Le parole che pronunciamo sono di un’altra epoca – premette Don Ravagnani – se penso alla messa non esistono altre situazioni in cui le persone stanno ferme per così tanto tempo, in silenzio, senza stimoli».
La Chiesa e la comunicazione
Bisognerebbe dunque cambiare le messe? «Penso che la messa non serva a evangelizzare chi è lontano. Non deve essere accattivante, ma celebrare il mistero. La liturgia d’altra parte è un’azione del popolo e la celebrazione è di tutti come stabilito dal Concilio Vaticano II». Un’istituzione millenaria, descritta da molti come in crisi e spaesata, è chiamata come sempre a intercettare i segnali della società, per viverci non da corpo estraneo. «Una persona che va a messa partecipa a un evento che non troverebbe altrove. Ed è un bene. Dio è il totalmente altro».
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Ma i miracoli non avvengono sui social (anche se la puntata di Muschio Selvaggio con il Masseo e Don Ravagnani è stata un mezzo capolavoro). E dunque per starci e raggiungere più persone occorre impararne e rispettarne i linguaggi. «Se voglio fare il prete sui social devo stare alle regole per fare bene il mio sevizio. Ci devo mettere la faccia, devo colpire le emozioni, devo usare ganci visivi ed emotivi. Non posso essere profondo su Instagram come lo sono su YouTube». A proposito, sul social di Meta Don Alberto Ravagnani è seguito da più di 230mila follower, sulla piattaforma di Google da 160mila.
Una mosca bianca in una Chiesa che in Italia è ancora forse troppo analogica? «In questo momento ci si è resi conto che i social sono importanti. Dal basso, le parrocchie e gli oratori stanno li stanno usando, con tentativi di evangelizzazione. Poi in Italia è difficile forse per via della presenza istituzionale del Vaticano». All’estero, come ci ha raccontato, il fenomeno è ben più evidente. «Ci sono influencer missionari digitali a tempo pieno. Penso all’America Latina – dice Don Alberto Ravagnani -. In Brasile proliferano gli influencer cattolici, perfino i vescovi influencer».
Sul web e sui social negli ultimi tempi si è parlato di scivoloni comunicativi da parte della Chiesa ai suoi massimi vertici, nella fattispecie per alcune espressioni usate da Papa Francesco (qui e qui). «Il Papa non vuole essere estremo o divisivo, vuole comunicare la prossimità della Chiesa. Alcune espressioni e modi di dire decontestualizzati risultano fuori luogo e scomposti. Osservo però che il suo parlare a braccio funziona. Oggi c’è bisogno di una Chiesa che si faccia prossima alle persone».
E i social in questo sono un mezzo secondo Don Ravagnani, non il fine. «L’ambiente delle persone è digitale oggi. E la Chiesa deve starci. Ma la sua carta vincente è la comunità, così come l’amore gratuito di Gesù. La Chiesa fa tante cose belle, ma la gente non sempre lo sa».