Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Intelligenza sensibile di Carlo Rinaldi, edito da Egea.
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Era il 1995 quando Daniel Goleman, con il suo libro Intelligenza Emotiva, spostò lo sguardo del mondo da un concetto di intelligenza tradizionale, fatto di quozienti intellettivi e competenze tecniche, a un territorio meno tangibile ma incredibilmente potente: le emozioni. Quelle che guidano le nostre scelte, modellano le nostre relazioni e determinano il senso di ogni nostra azione.
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Da allora, abbiamo imparato molto. E oggi, in un mondo che accelera senza sosta, sentiamo il bisogno di rallentare. La velocità e la complessità della nostra epoca richiedono capacità nuove, strumenti nuovi. Ed è qui che si apre una porta su un’intuizione che ho avuto circa vent’anni fa e che ho voluto chiamare Intelligenza Sensibile.
L’intelligenza sensibile è la capacità di cogliere non solo le emozioni degli altri, ma anche i segnali più sottili e corporei: un tono di voce che tradisce qualcosa di non detto, un movimento impercettibile, un silenzio che comunica più di mille parole. Non è semplicemente empatia. È ascolto relazionale. È entrare in frequenza. È energia trasformativa.
Per me, tutto questo ha iniziato a prendere forma nel 2004. Mi stavo specializzando in ingegneria informatica al Politecnico di Milano e dentro di me sentivo una tensione: un bisogno di connettere due mondi che mi appartenevano e che erano apparentemente lontani, l’ingegneria e la musica. La mia tesi di laurea così passo dal campo delle reti informatiche a quello delle reti neurali e si focalizzò sulla prosodia: intonazione, ritmo, silenzi. Tutti quegli elementi che danno significato alle parole, che rivelano il linguaggio.
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Da quel lavoro nacque PrEmA, un software che analizza la voce umana per estrarre emozioni e stili comunicativi. Era l’inizio di un viaggio che non era solo tecnologico: quei dati, quelle onde sonore, non erano solo numeri, statistica. Erano vivi. E dietro ogni onda c’era un significato che la macchina poteva misurare, ma che solo l’essere umano poteva comprendere davvero. La responsabilità del “sentire” non è delle macchine, è nostra.
Questa consapevolezza mi ha accompagnato nel tempo, fino alla stesura del mio libro Intelligenza Sensibile (Egea 2025). La copertina del libro, una ninfea bianca che emerge da uno sfondo scuro, è un simbolo preciso. La ninfea cresce silenziosa, nascosta sotto l’acqua, per poi emergere con tutta la sua bellezza. Simboleggia il sentire che nasce dal silenzio, dalla profondità. Le sue radici si intrecciano sott’acqua, invisibili, come le reti di connessioni che sostengono le relazioni umane. Relazioni che non sempre si vedono, ma che sono essenziali per creare nuova energia.
Ho tratto ispirazione anche dagli studi sulle piante. Le radici delle piante comunicano, collaborano. Esiste una rete di intelligenze naturali che lavora insieme per il bene dell’ecosistema. Questo ci ricorda che anche noi, come esseri umani, siamo parte di una rete più grande. E che la vera forza non sta nell’individuo, ma nelle connessioni.
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Una delle sfide più grandi per sviluppare l’intelligenza sensibile è affrontare la paura. La paura del diverso, dell’imprevedibile, dell’intelligenza artificiale. Ho inserito nel libro i dialoghi con 18 autorevoli “voci nel coro” (Marco Alverà, Mario Calabresi, Ubaldo Cortoni, Debora Diodati, Stefania Duico, Luca Foresti, Alessandro Lucchini, Maria Grazia Mattei, Enrico Melozzi, Fabio Moioli, Paolo Nespoli, Layla Pavone, Andrea Pezzi, Marina Salamon, Donatella Sciuto, Mariarosaria Taddeo, Pierluigi Tos e Pietro Trabucchi), che hanno risuonato su questo tema.
Oggi il tema dell’intelligenza artificiale è ovunque: riempie conversazioni, titoli di giornale e scenari di futuro. Ma come instaurare un dialogo autentico con queste intelligenze? E, in questo dialogo, come possiamo fare in modo che la nostra sensibilità giochi un «ruolo guida», attraversando i codici e gli algoritmi?
La vera domanda diventa non tanto come porre l’essere umano al centro, ma come farlo diventare un protagonista attivo, leader che orientino e guidino questo nuovo rapporto. Mentre ci muoviamo verso un mondo sempre più dominato da tecnologie avanzate, dobbiamo chiederci quale sia il nostro ruolo: semplice utilizzatore o creatore consapevole? Come possiamo mettere a frutto la nostra intelligenza sensibile per trasformare l’intelligenza artificiale in qualcosa di più di un mero strumento, rendendola parte di un progetto in cui le nostre emozioni, intuizioni e valori sono chiave?
Le macchine eseguono un compito, sono artifici dell’ingegno. L’essere umano esiste in quei meravigliosi labirinti che chiamiamo relazioni. Si pensi ai templi, mastodontici edifici creati per entrare in contatto con gli dei. Non più risorse umane ma “sensibilità umane”. Il parallelo tra la sensibilità umana e l’intelligenza artificiale sottolinea la nostra capacità di far leva sulla logica per abbracciare la complessità dell’essere.
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L’intelligenza sensibile è anche un invito a uscire dalle nostre scatole. Passare dall’ego all’eco. Creare spazio, togliere una parte di sé (l’ego) per creare risonanze (l’eco). Questo vale anche nel mondo professionale: le aziende oggi hanno bisogno di un purpose, una ragione condivisa che unisca le persone. Non è solo una questione di obiettivi, ma di segnali vitali. Quando lavoriamo con persone che ci fanno stare bene, la nostra energia si moltiplica. Quando siamo in relazioni tossiche, l’energia si esaurisce.
Viviamo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale è ovunque. E la vera sfida non è competere con le macchine. È uscire dalle etichette che ci definiscono e con cui ci auto-definiamo. La tecnologia può essere uno strumento straordinario, ma è l’essere umano che può sviluppare la propria sensibilità per fare in modo che le macchine amplifichino il meglio di noi, e non il contrario.
L’intelligenza sensibile è così un invito a rallentare, ad ascoltare con tutti i nostri sensi, a percepire le connessioni invisibili che ci circondano. E a scoprire che, nelle interazioni quotidiane, si nasconde una ricchezza che può trasformare il modo in cui viviamo e lavoriamo. Perché, in fondo, il senso della vita è tutto qui: creare relazioni che generano energia. Per restare umani.