«In Italia sappiamo che gli entry salary dei trentenni ci mettono in forte imbarazzo se paragonati con altri contesti europei. Dublino è cara, ma è meglio partire con 3mila euro al mese in una città costosa. Lo stipendio di ingresso non ti rende ricco ma ti segnala un modello economico. Spesso andare all’estero garantisce una proiezione di carriera che porta ad aver successo». Giulio Buciuni, economista e docente di Business Innovation alla Business school del Trinity College della capitale irlandese, non nasconde le difficoltà del mercato del lavoro italiano.
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In questa puntata di “Italiani dell’altro mondo” siamo partiti da un dato oggettivo – quanto vengono pagati i giovani in Italia? Poco – che spesso spinge i talenti ad andare all’estero. C’è però una soluzione per rendere più competitive le imprese, sotto tutti i punti di vista? «Una grande finestra di opportunità è lavorare con le startup. Bisogna cambiare la mentalità di aziende che hanno 40 anni».
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L’Italia vista da fuori
A Dublino da otto anni come professore associato, Buciuni ci è arrivato dal Canada dopo essersi formato in Italia. «Nel 2015 sono andato all’Università di Toronto come ricercatore. Prima ancora ero stato assegnista di ricerca alla Ca’ Foscari, a Venezia». Un elemento è chiaro nel percorso dell’economista. «Se non fossi andato a Toronto oggi non sarei in Irlanda. Durante il mio dottorato all’Università di Verona sono stato anche a Duke, in North Carolina. Ho lavorato con uno dei padri del Global Value Chain. Sono entrato in un circuito di ricerca che mi è servito volto».
Il mondo della precarietà in Italia riguarda anche il settore accademico, con impietosi confronti tra le fatiche negli atenei italiani per farsi strada e le grandi opportunità in contesti europei e internazionali. Da anni li chiamiamo cervelli in fuga, un investimento che la collettività spreca consegnando molti talenti ad altri Paesi. Ma non sarà un’intervista focalizzata sulla necessità di emigrare. Nel suo ultimo libro Innovatori outsider. Nuovi modelli imprenditoriali per il capitalismo italiano (Il Mulino, 2024), Buciuni fa diversi esempi che mostrano scenari di potenziale crescita per l’ecosistema italiano. Grazie a startup che fanno da cerniera con le PMI e il tessuto imprenditoriale.
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Esempi da replicare
Ma partiamo dalla città che in Europa è più legata per fama alla presenza di Big Tech, Dublino. Ha qualcosa da insegnare anche per le PMI alle nostre latitudini? «La città è diventata la capitale del tech europeo, senz’altro grazie all’attrazione delle imprese per agevolazioni fiscali. Ma quello che sfugge è che attorno alle sequoie crescono le piante più piccole. I grandi ecosistemi dell’innovazione mixano imprese grandi e piccole». Viene dunque meno il luogo comune del grande che divora il piccolo. Posto che si rispettino certe condizioni. «C’è una correlazione tra presenza delle Big Tech e la crescente presenza di startup».
Visto da fuori, l’ecosistema italiano può trovare un elemento di novità in quelle che Buciuni ha definito startup plug-in. «È a tutti gli effetti una startup o una giovane impresa a forte contenuto tech che opera a ridosso delle principali filiere produttive italiane. È una impresa cerniera. Unisce il saper fare manifatturiero con modelli di business e la gestione del capitale umano». Non corpi esterni o minacce. «Secondo me il passaggio interessante è la simbiosi tra imprese plug-in e territori. Le filiere altrimenti non innovano. Le PMI non riescono ad innovare da sole, lo sappiamo. I territori industriali stessi diventano incubatori per imprese plug-in».
La contaminazione delle startup
Occorre però un cambio di mentalità, soprattutto affinché le startup vengano percepite come attori capaci di generare cambiamento. «Abbiamo pensato che una strada possibile fosse l’upgrading interno. Però in Italia abbiamo perso 60mila imprese in 12 anni. Quello che non si riesce a fare internamente si può fare con l’aiuto del mercato. Startup che innovano il processo, il prodotto, il business model. Le società devono farsi pluggare. Pensiamo a quanto Stripe, azienda nata in Irlanda, ha potenziato i modelli di business di bar e dei ristoranti».
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Periferie competitive
Un altro concetto che Buciuni ha esplorato in passato è quello delle periferie competitive. Un’immagine che riusciamo a visionare soprattutto in Italia, dove intere filiere hanno un’anima territoriale molto forte. Gli abbiamo chiesto di partire da un esempio estero. «La città di Galway, in Irlanda. Per tanti anni è stata una delle contee più povere, mentre oggi è un centro di ricerca e imprenditorialità nel biomedicale». E in Italia? «Dico Reggio Emilia, una città mai considerata parte del motore industriale italiano, che ha fatto i conti con chiusure. Oggi c’è grande fermento. Due delle imprese plug in che studio sono spin-off di Unimore. E funzionano, raccolgono capitale. È una periferia che sta trovando un assetto competitivo».
Per Buciuni, che ha conosciuto anche il contesto nord-americano non bisogna ovviamente commettere l’errore di illudersi che si possano replicare i modelli di successo, soprattutto se mancano gli ingredienti. «Gli ecosistemi funzionano perché ci sono asset industriali cognitivi che alimentano e nutrono le startup, come se fossero un grande incubatore. Nei distretti ci sono asset manifatturieri, risparmio privato, eccellenza industriali. Sono serbatoi di competenze che potrebbero essere rizollati per piantare nuovi semi: startup che si legano alle filiere. CDP in questo sta investendo in acceleratori di filiera».
Dall’estero, però, occorre fare pace col passato, cercando di chiudere il più rapidamente possibile il sogno di un ritorno alle orgini, al modello perdente del piccolo-è-bello, di aziende famigliari che non accettano di cambiare per abbracciare i nuovi modelli digitali in un mercato globale. «Guardiamo con nostalgia al modello delle PMI senza capire che va lasciato – ha concluso l’esperto -. Nell’economia della conoscenza attuale quel che fa la differenza è il capitale umano di qualità».