Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Business Content Creator di Stefano Chiarazzo, edito da FrancoAngeli.
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La tradizionale narrazione push che partiva e si concentrava in maniera aggressiva sul what, per creare nuovi bisogni e imporre di conseguenza l’acquisto del prodotto o servizio, oggi non è più efficace. L’approccio vincente diventa quello pull, con un racconto che parte dal why permettendo alla marca di connettersi grazie al proprio pur- pose ai bisogni delle persone, per poi proseguire con l’how, il proprio universo valoriale e il proprio modo di operare sul mercato, e terminare con il what, la propria offerta raccontata come soluzione per migliorare la vita delle persone e portare un impatto positivo per tutti. Un approccio da applicare a tutte le singole storie, che nel loro insieme costituiranno un’unica esperienza multimediale e multicanale che permetterà alle persone di conoscere la marca da più prospettive e di interagire attraverso diversi touchpoint.

E se il mio brand non è Lego, Apple o Nike? Posso avere comunque successo con le mie storie? Assolutamente sì. Le storie sono democratiche. Non è detto che la storia di un artigiano sia per tutti meno interessante di quella di una big company, anzi. Tutte le imprese, anche le più piccole o giovani sul mercato, nascono con un purpose. Se competete nella vostra nicchia, piccola o grande che sia, i vostri clienti e stakeholder sono interessati a saperne di più su chi siete, che cosa fate, come lavorate, quali risultati ottenete e come create benessere diffuso. La differenza è solo numerica: più il vostro business è tecnico e “non per tutti” – pensiamo al B2B – più sarà ristretto il vostro pubblico di riferimento. Quello che non cambia è la possibilità di raccontare il proprio valore aggiunto attraverso storie uniche e differenzianti.
Trovata la storia da raccontare, il primo passo è raccogliere tutti quegli elementi che possano aiutarci a farlo in maniera persuasiva minimizzando eventuali rischi di per- cezioni e reazioni negative. Ci viene in aiuto il mondo pubblicitario con lo strumento della copy strategy, documento che definisce gli elementi chiave di una strategia creativa e fornisce così l’insieme di riferimento su cui sviluppare la comunicazione delle caratteristiche distintive e dei benefici rivendicati dall’azienda. Aprite un bel documento partecipativo e lavorate in team per delineare i sei punti seguenti.
- Promise. Perché comprare proprio questa marca? È il “concetto di vendita” di base, quello che viene chiama- to unique selling proposition(USP) (più diretto e commerciale rispetto alla USP che abbiamo visto più su) e che in poche parole valorizza l’utilità e il risultato che la marca o un suo prodotto o servizio specifico promet- te alle persone e che la distingue dai concorrenti.
- Reason why. Perché credere alla promessa della mar- ca? Serve focalizzare una caratteristica essenziale che accredita oggettivamente la USP rendendola convin- cente, dimostrabile e differenziante. Può essere un be- neficio funzionale e concreto oppure un aspetto valo- riale che caratterizza il DNA dell’azienda (e qui sì stia- mo parlando di UVP).
- Supportingevidence.È vero che le storie devono prin- cipalmente far leva sulle emozioni, ma si devono fon- dare su fatti che validino inprimisi benefici funzionali. Fondamentale, dunque, raccogliere dati, pareri, studi e pubblicazioni che costituiscano un supporto tecni- co-scientifico alla giustificazione da tenere pronto in caso di obiezioni e attacchi da parte di concorrenti, at- tivisti e detrattori.
- Toneofvoice.In fase creativa, relazionale e distributi- va sarà necessario avere contezza del carattere e della personalità che vogliamo che il contenuto rifletta in ter- mini di stile e di mood della comunicazione9.
- Must. Ogni mercato, ogni comunità, ogni piattaforma sono diversi e hanno le proprie regole, scritte e non scritte. È fondamentale che un business content creator abbia ben chiari gli obblighi e i vincoli imposti alla co- municazione non solo dalle leggi internazionali e na- zionali, dalle specifiche normative vigenti, dalle policy dell’azienda e dei singoli editori e piattaforme ma an- che dagli usi e dalle prassi prevalenti.
- Target response. Ogni contenuto deve avere un ruolo e deve contribuire al raggiungimento di obiettivi ben precisi e misurabili, abbiamo detto. E allora è fonda- mentale chiarire a monte quale effetto vogliamo ottenere e quale reazione vogliamo stimolare da parte del- le persone. Cambio della percezione? Propensione all’acquisto? Passaparola? Advocacy? Potrà essere spontanea in seguito alla semplice fruizione del con- tenuto o potremo decidere di attivarla con una più in- tenzionale call to action.
Un esempio? La comunicazione di marketing della Linea 100% di succhi di frutta Yoga. La sua promessa “Il miglior sapore della frutta da bere nella sua essenza, senza altri ingredienti aggiunti” con “Tanti gusti ideali per adulti e bambini, naturali, pensati da Yoga per un’alimentazione sana e corretta ogni giorno”, sintetizzata nel claim che rappresenta la USP della linea: “100% frutta e nient’altro”.
Nei materiali promozionali la reason why viene poi approfondita così: “Il succo 100% frutta preparato unicamente con i raccolti della filiera al giusto grado di maturazione”, con un’ulteriore informa- zione sul packaging “Il maxi-formato PET da 1L, com- posto al 50% da plastica riciclata e riciclabile al 100% a sua volta, è perfetto per preservare le qualità nutrizionali del succo e per salvaguardare il pianeta”.
Mettendoci nei panni del brand, la comunicazione deve essere supportata da chiare evidenze che raccontino la filiera di coltivazione e raccolta della frutta e il messaggio implicito legato all’assenza di zuccheri aggiunti, coloranti e conservanti. Il tono di voce è nella filosofia della linea slow fruit, dove il gusto è solo quello naturale, un mix tra genuinità e innovazione. Per i must, è ampiamente rispettata la normativa che impone una percentuale mi- nima di frutta ma poi ce ne sono, per esempio, altre legate alla chiarezza dell’etichettatura, alla filiera trasparente e responsabile e alla comunicazione dei valori nutri- zionali. Relativamente alla risposta del pubblico, questa linea aiuta ulteriormente la marca a sviluppare un posizionamento premium orientando l’acquisto di chi cerca prodotti alimentari sani e naturali.
Elevator pitch: poche parole, quelle giuste e persuasive
Costruita la copy strategy, c’è un esercizio non facile ma a mio parere indispensabile, utilizzato dagli imprendi- tori per convincere gli investitori a finanziare il proprio progetto. Si chiama elevator pitch, simulazione di una breve presentazione che ci troveremmo a fare nella situazione in cui trovassimo casualmente uno di questi investitori in ascensore (ma può essere anche un potenziale cliente, partner o talento da attrarre oppure un giornalista o opinion leader a cui chiedere supporto), dove si hanno pochi piani e, di conseguenza, pochissimo tempo a disposizione per valorizzare la nostra unique value proposition. Improvvisare è un rischio, è bene prepararci. Durante la nostra presentazione, non dobbiamo dire tutto. Lo scopo è incuriosire, far sì che il nostro interlocutore ci chieda di approfondire in maniera più precisa e dettagliata. Di seguito un possibile modello a step da seguire per un breve discorso.
- Gancio. Catturiamo l’attenzione con un hook: una do- manda retorica, una frase provocatoria o dati e trend di contesto.
- Problema. Raccontiamo una storia o delle statistiche.
- Soluzione.È il momento: riveliamo come possiamo ri- solvere il problema.
- Uniquevalueproposition.Spieghiamo che cosa ci dif- ferenzia, qual è il valore unico che possiamo offrire. In pratica, “perché” il nostro interlocutore dovrebbe sce- glierci.
- Calltoaction.Il passaggio più difficile. Ricapitoliamo o esplicitiamo i concetti chiave (take away) della presentazione e formuliamo la nostra richiesta, rendendoci disponibili per eventuali approfondimenti.
Normalmente è un metodo utilizzato per parlare in pubblico o per ottimizzare lo script di un video. In quel caso va poi provato per esercitarci, non solo nel rispetto della durata massima che ci siamo prefissi ma anche dell’efficacia dell’esposizione: setting, lessico e linguaggio non verbale, dalla postura al tono di voce fino alla gestualità delle mani. Molte aziende, però, stanno utilizzando metodi per testare, approvare e mettere a disposi- zione di tutti i dipartimenti la cosiddetta brand narrative, o narrazione di marca, sintesi in 10-20 righe che ne racconti l’essenza in maniera memorabile e persuasiva. Essendo il contenuto più importante di tutti, richiede un investimento di tempo e risorse, inclusa la validazione con focus group di stakeholder interni ed esterni rappresentativi.

Tre modi di raccontare una storia
Una volta finalizzata la nostra copy strategy dovremo decidere in che modo raccontare la nostra storia. Ve ne propongo tre che sono utilizzabili in maniera combinata all’interno di un percorso narrativo composto da più storie. Partiamo dal più famoso storytelling, l’arte di raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva con l’obiettivo di conquistare un pubblico che pos- sa riconoscersi. Tra i principali presupposti, dunque, sicuramente la personalizzazione della storia mettendo in connessione il mondo del brand con quello di un pubblico di riferimento ben definito caratterizzato da precisi bisogni, desideri e paure.
Poi, uno sviluppo narrativo coinvolgente che può avvalersi anche degli schemi preesistenti come il celebre viaggio dell’eroe di Vogler, che prevede la partenza del protagonista, uscendo così dal suo contesto ordinario, una serie di prove da affrontare e un ritorno vittorio- so e consapevole dell’arricchimento che il percorso gli ha portato. Modalità tipiche della narrativa, del cinema, del- la radio e della TV che accrescono il potere delle storie di far leva sull’immedesimazione e sulle emozioni, più che sulla razionalità. E questo crea un forte legame della marca con le persone in quanto soluzione ai propri problemi e paure e alla soddisfazione dei propri bisogni e desideri, invogliandole non solo ad ascoltare le storie, a interiorizzarle e a ricordarle ma anche ad agire, interagire e a condi- viderle a loro volta con le proprie cerchie.
Con la pandemia di Covid-19 si è velocizzato e concretizzato, soprattutto sul corporate, un passaggio in atto da anni dallo storytelling allo storydoing, con il quale molte aziende stanno progressivamente preferendo un racconto più concreto e in tempo reale. Un percorso obbligato che, in seguito alla necessità di aggiornare su quanto si stava facendo per rispondere all’emergenza, è entrato nella nuova normalità dei team che supportano la comunicazione aziendale e dei singoli top manager. Fare e poi raccontare, fare e poi raccontare. Un mantra per creare partecipazione attorno al costante impegno verso un futuro davvero sostenibile a livello economico, etico, culturale, sociale e ambientale. Rispetto allo storytelling, la narrazione si basa meno sulla comunicazione simbolica e sulla fascinazione visiva di storie create ad arte e più sulla rilevanza del gesto e sul racconto autentico di storie di vita vera. È anche più inclusivo, parlando a un pubblico più orizzontale di stake- holder che “convoca” e attiva nel supporto del purpose aziendale.
La terza modalità è rappresentata dallo storymaking: incoraggiare le persone a raccontare le loro esperienze con la marca. Sono quelli che in passato venivano chiamati user generated contents (UGC), tra i quali potremmo includere menzioni, testimonianze e recensioni in tutte le loro forme: dai testi alle foto, agli audio, ai video; dai sel- fie ai reportage, ai meme, ai contenuti creativi. Contenuti di brand lover come clienti, dipendenti e partner che la marca può sollecitare, curare e ridistribuire dando più forza alla propria comunicazione. L’ingrediente fondamenta- le per uno storymaking di successo è il coinvolgimento diretto del pubblico attraverso la possibilità di vivere un’esperienza memorabile: la partecipazione a un evento pubblico o a porte chiuse, una prova di prodotto in anteprima, un beneficio esclusivo. Le persone diventano così protagoniste della narrazione e hanno un’esperienza non solo da ricordare, ma anche e soprattutto da raccontare. Con lo storytelling è l’azienda che si racconta in maniera unilaterale a partire da un’idea creativa e dallo sviluppo di conte- nuti che, prima di essere diffusi, vengono affinati e approvati per massimizzare l’efficacia e minimizzare i rischi della narrazione aziendale.
Con lo storymaking, invece, l’azienda si prende un bel rischio perché, stimolando le persone a raccontare storie che la riguardano, decide consapevolmente di perdere totalmente o parzialmente il con- trollo della narrazione. Perché lo fa? Perché un racconto della marca da parte di altri soggetti è più autentico, credi- bile, rilevante e capace di generare ulteriore partecipazione di piccole o grandi comunità di persone affezionate all’autore del racconto. Come avrete capito, le tre modalità di racconto sanno complementarsi agendo su piani diversi della narrazione. Contenuti basati sullo storytelling e sullo storydoing possono coesistere all’interno dello stesso piano editoriale e, grazie alla forza delle storie, attivare lo storymaking nei confronti dei clienti, dei dipendenti e di tutti gli stakeholder aziendali.