E’ il 1° aprile 1987, la prima lattina di Red Bull Energy Drink viene venduta nella nativa Austria di Mateschitz. Nel suo primo anno l’azienda chiude con un passivo di 3 milioni di scellini. La gente non apprezzava la nuova bevanda. Anche le banche le voltarono le spalle. Solo la Spängler Bank, una piccola banca privata di Salisburgo, ha il coraggio di abbracciare la vision di Mister Red Bull. Ancora oggi, in segno di lealtà, questa è la banca di riferimento dell’azienda e uno dei principali partner finanziari di Red Bull.

Per non vedere un bilancio in rosso si dovrà aspettare il 1989 quando le strategie di marketing non tradizionali e il passaparola resero la Red Bull un prodotto iconico. Didi credeva fermamente nella sua idea, ma non rimase fermo in attesa che le cose accadessero. Diede una spinta al destino.

«Se la cosa fosse andata male, dormirei sotto un ponte oggi», disse una volta. Il rischio economico, fin dall’inizio, è stato molto alto per l’imprenditore austriaco. E nella storia di Red Bull non sono mancati ostacoli e passi falsi. La burocrazia e il voltafaccia delle banche hanno rischiato di affossare l’azienda prima della sua nascita. I divieti e le restrizioni legali hanno quasi impedito a Red Bull di mettere da subito le ali. Altri inciampi lungo il percorso hanno messo in difficoltà la società. Ad esempio, l’espansione in Inghilterra si è rivelata più ardua del previsto. In due anni, l’operazione ha generato 12 milioni di dollari di perdite, con solo 2 milioni di lattine vendute. Anche la scelta di occuparsi in proprio della distribuzione, una volta interrotto il rapporto con Henkell & Söhnlein, si è rivelata sbagliata.
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Ancora, l’introduzione della bevanda analcolica Red Rooster e 10 anni dopo, del marchio Carpe Diem, con il quale Mateschitz tentò di creare un secondo pilastro nel settore delle bevande, fu un altro buco nell’acqua. Le perdite furono milionarie per anni. Ma sono insuccessi che non hanno mai messo davvero in crisi Didi. «Finché riesco a pensare lucidamente, posso pensare ad alternative. Tutto ciò che serve sono occhi brillanti e una mente lucida».
«Noi non portiamo un prodotto ai clienti, portiamo i clienti al prodotto»
Dal 1987 a oggi, sono state vendute oltre 100 miliardi di lattine. Com’è possibile che una bevanda di cui nessuno sente il bisogno, che non passa i test del gusto perché «troppo dolce», che alcuni paragonano a un farmaco perché «sembra uno sciroppo» sia al centro di un impero che vale miliardi di dollari?
Didi trasforma l’immagine di Red Bull. Da bevanda popolare a prodotto esclusivo. Abbandona il legame con la classe operaia, presentandola come prodotto premium rivolto a studenti, giovani avventurosi e amanti della vita notturna. Non si rivolge ai consumatori tradizionali. Rincorre i non clienti.
Né nottambuli né festaioli conoscevano Red Bull. Didi si reca in tutti i bar e le stazioni di servizio dell’Austria laddove sa di trovare persone in target. Distribuisce gratuitamente le lattine. Firma accordi con le discoteche. Per creare interesse, riempie i bidoni della spazzatura fuori dai locali con lattine vuote di Red Bull. Facendo leva sull’idea che «Se tutti la bevono, deve essere buona». Un successo.

Il passaparola sugli effetti energizzanti di Red Bull si propaga velocemente oltre i confini. In Germania la sua commercializzazione è vietata. Anche in Ungheria, Francia e Danimarca vigono restrizioni per l’alto contenuto di caffeina e taurina. Proprio il fascino del proibito ne decreta il successo. I consumatori iniziarono a importare illegalmente Red Bull da Salisburgo, allora fuori dall’UE, in Baviera.
È solo tra il 1992 e il 1994 che Red Bull otterrà l’autorizzazione legale per questi mercati. Mercati che avevano già imparato a conoscere e apprezzare questa bevanda. Come ha detto una volta Mateschitz: «La cosa più pericolosa per un prodotto di marca è lo scarso interesse».
Strategia Oceano blu
Didi non solo introduce un prodotto totalmente innovativo, ma dà origine a una categoria di mercato completamente nuova. Negli anni ’80 c’erano due mercati molto saturi: quello delle bevande alcoliche e quella delle bevande analcoliche e delle bibite. Didi era consapevole che se la Red Bull avesse giocato in questi due mercati, avrebbe perso la partita. Ne è una dimostrazione Virgin Cola, il tentativo fallito di Richard Branson di competere con Coca-Cola e Pepsi per avere uno spazio sugli scaffali dei negozi.
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Inoltre, sebbene il prodotto fosse conosciuto ed apprezzato, rimaneva un problema di prezzo. La Red Bull era conosciuta come la Koks für Arme, ovvero la Coca Cola per i poveri. L’accostamento alla Coca Cola, ne sminuiva le caratteristiche e la percezione. Cosa fare? Giocare in un altro mercato con altre regole. Come? Ideando una nuova categoria, quella degli energy drink. Ottenendo un vantaggio di prezzo in quanto first mover.
Red Bull ha reso quindi irrilevante la concorrenza, creando una nuova domanda. La sua leva? Il marketing non convenzionale: pubblicità fuori dagli schemi e sponsorizzazione di sport estremi, festival musicali e competizioni di gioco. Da sempre, le spese di marketing superano di oltre il doppio i costi di produzione, raggiungendo in questo modo milioni di persone e aumentando la notorietà del brand. E piuttosto che controllare la produzione, Red Bull ha imparato a padroneggiare l’arte della distribuzione.

Il momento di svolta per Red Bull è arrivato nel 1992, quando Mateschitz, sognando esperienze che coinvolgessero e divertissero i suoi amici carichi di adrenalina, ha ideato il Red Bull Flugtag (giorno del volo). L’evento vede ingegneri autodidatti e piloti improvvisati costruire macchine volanti senza motore, felici di spiccare il volo da un trampolino a 6 metri di altezza. Il successo di Flugtag fu un momento fondamentale per la giovane azienda, e codificò una filosofia centrale. Non affittare spazi agli eventi di altre persone, crea e possiedi i tuoi. Red Bull è riuscita a trasformare un costo di distribuzione in un’opportunità di reddito, sfruttando le sponsorizzazioni.
Werner Brell, amministratore delegato di Red Bull Media House, ha dichiarato «Siamo stati creatori, produttori e distributori del salto da record di Felix Baumgartner dallo spazio esterno alla Terra, che ha ottenuto 9 milioni di visualizzazioni simultanee su YouTube. Possedevamo l’intero progetto».
«Quando ti piace il Rolex vuoi quello originale, non quello falsificato a Taiwan»
Le bevande energetiche sono ancora oggi una categoria di nicchia. Esse rappresentano solo l’1% del mercato totale delle bevande analcoliche. Ma come è possibile che nonostante il suo contenuto non sia brevettato e tutti gli ingredienti sono elencati all’esterno della lattina, Red Bull è ancora il marchio leader nel mercato delle bevande energetiche? Leader nonostante ci siano 190 competitor?
Red Bull ha creato una domanda che altri volevano soddisfare. La bevanda Roaring Lion, ad esempio, è stata creata da 4 ex dipendenti della filiale statunitense di Red Bull. Stesso gusto ma prezzo più basso. Mateschitz così commentava la concorrenza: «Quando ti piace il Rolex vuoi quello originale, non quello falsificato a Taiwan».

Red Bull ha sempre privilegiato l’innovazione di valore alla concorrenza diretta. E ha saputo mixare sapientemente lo storytelling con lo storydoing: se con il primo racconta con il secondo crea. Crea esperienze condivise e narra attraverso i fatti. Fa in modo che con foto, video documentari, eventi il protagonista non sia la bevanda ma chi vuole spingersi oltre i confini per raggiungere l’impossibile. Red Bull racconta l’azienda, i suoi valori e i suoi prodotti grazie ai clienti che diventano consuma(u)tori. Forse scontato oggi, ma non allora.
Il cliente è il narratore. Il contenuto la storia
Grazie a una cultura di innovazione, rischio e collaborazione, Didi ha creato una community di appassionati consumautori e un team orientato alla realizzazione della sua visione. Il suo rapporto con fornitori e dipendenti si è sempre basato sulla fiducia. Credeva che una stretta di mano tra gentiluomini fosse sufficiente e faceva regolarmente affari con partner fidati senza contratti scritti. Aveva stipulato un patto di lealtà con i collaboratori, supportandone la crescita, accettando i loro errori a patto di non ripeterli. E incoraggiando la propensione al rischio. In fondo la sua storia insegna a non avere paura di mettersi in gioco. A non considerare il fallimento un punto di arresto ma un punto e a capo. È la spinta a continuare che metterà le ali al tuo business.
Le tre regole d’oro
Regola 1: Rischia. Osa. Sperimenta. Se fallisci, non scoraggiarti: lascia che l’errore ti guidi e ti spinga a trovare soluzioni originali.
Regola 2: Sfida il pensiero convenzionale. Non limitarti a seguire il copione. L’innovazione batte l’imitazione.
Regola 3: Crea nuovi spazi di mercato che rendono la concorrenza irrilevante. Ridefinisce i confini del settore. Focalizzati sui non clienti e porta i clienti al prodotto.