«Negli Stati Uniti vanno più veloci perché percepiscono un’urgenza diversa. In Europa siamo molto più tranquilli. In Italia poi c’è un problema: molte startup non sono fatte per il Venture Capital. Perché sono PMI camuffate con promesse agli investitori che non riusciranno a mantenere». Nell’intervista del lunedì dedicata a un protagonista del settore investimenti ci siamo seduti insieme a Francesco Cardoletti, Head of Ventures di Mamazen, per conoscere la storia di un appassionato di tecnologia, più volte imprenditore e ora messosi a disposizione per accelerare il cambiamento in Italia dopo anni vissuti all’estero. «Mi sento un expat in Italia».

Un expat in Italia
Classe 1975, Francesco Cardoletti si è trasferito all’estero all’età di 10 anni. «Con la mia famiglia siamo stati sei anni ai Caraibi e poi due in Svizzera. A 18 anni sono ripartito un’altra volta». Destinazione Boston, alla Suffolk University, dove ha studiato ingegneria in una delle città più importanti per quanto riguarda la formazione e il tech transfer su determinate tematiche di innovazione. Nel Massachusetts ha poi lavorato per due corporate, 3com e Verizon. «Ci sono stato alcuni anni, ma poi mi sono reso conto che non era il mio mondo».
Si è così spostato a New York dove è stato tra i primi dipendenti di una startup attiva in ambito telefonia mobile. «Era un’azienda che aveva un business model semplice: comprava minuti dalle aziende di telefonia, li rimpacchettava in tessere e li distribuiva». Non era alta tecnologia, ma Francesco Cardoletti ha un ricordo preciso di quel periodo.

«Lavoravo dalle 8 del mattino alle 11 di sera. Sabato e domenica inclusi. Senza alcun tipo di peso, ma perché volevo farlo. Non mi sono mai divertito così tanto nella mia vita». Non tanto per l’oggetto del suo lavoro – le schede telefoniche – quanto per la cultura in cui si è immerso. «Questa voglia di fare tutto veloce e bene mi dava la spinta. New York è fatta così: non si va piano e c’è sempre questa energia».
Da New York a Londra
Tra 2004 e 2012 ha vissuto là, lanciando anche una startup. «Mi sento un imprenditore che cerca sempre di capirsi». Nell’anno delle Olimpiadi di Londra si è trasferito nella capitale UK. «L’ecosistema era cinque anni indietro rispetto agli Stati Uniti, ma culturalmente era molto più ricco e aperto». La vita da dipendente ora e da founder poi lo ha formato al punto che ha deciso di rientrare in Italia proprio per capire come fare recuperare terreno alle nostre aziende, PMI comprese.

«Ho considerato Spagna e Portogallo. Ma sono italiano e sono allineato al Paese. L’Italia è indietro ma questo crea un’opportunità. Il settore startup è competitivo e bisogna partire da un dato: il Paese è fatto da centinaia di migliaia di piccole aziende». Ragione per cui è necessario ragionare in un’ottica di co-creazione tra imprese tradizionali e realtà innovative. «Si potrebbero fare cose interessanti. Da una parte hai gli asset delle PMI da affiancare al modo di lavorare di una startup». Qualcosa di simile a quanto ci ha raccontato tempo fa il professore Giulio Buciuni che volta pagina rispetto alla logica chiusa dei distretti.
Il destino dell’Italia
«Ora Mamazen si focalizza sulle microimprese. Tutto quel che facciamo aiuta l’imprenditore. Il prossimo passaggio è sostenere le PMI: entro un anno porteremo qualcosa sul mercato». Nel frattempo c’è da fare i conti con un’economia che di certo non galoppa, anzi. La guerra dei dazi scatenata da Donald Trump avrà presto conseguenze dirette e negative sui consumatori (uno delle prime immagini che gli esperti prefigurano è quella degli scaffali vuoti in negozi e supermercati).

«I dazi sono sbagliatissimi. Rappresentano un’arma contro la globalizzazione. La mia esperienza non può che vedermi a favore di un mondo globale». Le ragioni che hanno spinto la Casa Bianca a intraprendere questa politica aggressiva sulle tariffe stanno nella storia dello sviluppo del Paese secondo Cardoletti. «L’economia americana ha lasciato tante persone in difficoltà, si è creata una forbisce tra super ricchi e classe media che è diventata sempre più povera».
I dazi servirebbero dunque a riportare quei tanto agognati lavori in patria? «C’è un problema però: qualsiasi prodotto ha componenti che arrivano da tutto il mondo. Dopo che abbiamo esportato i nostri lavori all’estero non abbiamo fatto un upskilling delle persone e questo le ha rese scontente. La soluzione ora è mettere dazi così da riportare tutto negli USA? Credo sia assurdo».