Basta aprire il giornale la mattina, accendere la televisione, la radio, scorrere la streamline dei social network o partecipare a eventi e conferenze nazionali e internazionali per leggere e sentir parlare di come la regolamentazione – in particolare quella europea – stia strangolando l’innovazione – a cominciare dall’intelligenza artificiale – o, al contrario, di come la tecnologia – ancora una volta a cominciare proprio dall’intelligenza artificiale – stia travolgendo la regolamentazione.

Regole e innovazione antagonisti, nemici giurati, rivali belligeranti. «In questo momento ci troviamo di fronte alla straordinaria prospettiva di una nuova rivoluzione industriale, alla pari dell’invenzione della macchina a vapore» – ha detto il Vice-Presidente degli Stati Uniti d’America, JD Vance qualche mese fa intervenendo all’AI Summit organizzato dal Presidente francese Macron a Parigi, -«ma non si realizzerà mai se l’eccessiva regolamentazione dissuaderà gli innovatori dall’assumersi i rischi necessari per far progredire il progetto», ha aggiunto.
29 maggio 2025, SIOS25 Sardinia: prendi il tuo biglietto ora
«Stop alle regole sull’intelligenza artificiale», insomma, incluse – ed ecco regole e innovazione tecnologica autorevolmente proposte come antagoniste anche nella dimensione geopolitica – quelle europee, a cominciare, naturalmente, da quelle europee sulla protezione dei dati personali.
E alle parole del Vice-Presidente americano pronunciate a Parigi, senza nessuna sorpresa, poche settimane dopo, hanno fatto eco, quelle arrivate a Washington, alla Casa Bianca dalla Silicon Valley, dai rappresentanti delle più grandi fabbriche globali degli algoritmi, Sam Altman di OpenAI, in testa, in risposta alla consultazione pubblica lanciata dall’Amministrazione Trump proprio in materia di regolamentazione dell’intelligenza artificiale: se la pressione regolamentare, in particolare in materia di copyright e privacy, non si allenta l’industria americana dell’AI non potrà competere con quella cinese e il nostro – loro – Paese è destinato alla sconfitta.
Un messaggio tanto duro quanto chiaro. Chi vuole fare l’America grande di nuovo come il Presidente americano Donald Trump, secondo i capitani dell’industria tecnologica dovrebbe, innanzitutto, tirare il freno della regolamentazione. Impossibile in un contesto di questo genere non aprire un dibattito sulla questione anche da questa parte dell’oceano dove mercati e industria tecnologici, in particolare nella società degli algoritmi e dell’AI, faticano – che nessuno si offenda – a tenere il passo con i campioni statunitensi e con quelli cinesi.
Impossibile non chiedersi se e quanto la colpa di questo ritardo sia da ricercare, in buona misura, proprio nella regolamentazione europea, sino a qualche mese fa, per la verità, considerata e, anzi, osannata, innanzitutto a Bruxelles come la nostra migliore freccia nella faretra per riconquistare la posizione che la vecchia – solo anagraficamente – Europa merita nella società digitale globale. E, sfortunatamente irresistibile per molti la tentazione di rispondere, per la verità un po’ frettolosamente, in senso affermativo.
Ma le cose stanno davvero così? Ma, soprattutto, ammesso che stiano così devono davvero stare per forza così? La risposta sintetica, per i lettori più pigri, è no: non stanno così e, quindi, a maggior ragione non c’è ragione per la quale debbano stare così. Ma se la risposta fosse così semplice, naturale e immediata, la domanda non starebbe animando un dibattito planetario incandescente con ricadute geopolitiche, finanziarie, industriali, sociali e, ovviamente, regolamentari e tecnologiche.
In effetti le cose sono più complicate di quanto la mia risposta sintetica non suggerisca anche se, al tempo stesso, meno complicate di quanto non appaia. In linea di principio non esiste, non può esistere, non deve esistere alcuna contrapposizione tra regole e innovazione ma, anzi, al contrario, la regolamentazione, in una società democratica è il più efficace degli strumenti per orientare l’innovazione nell’unica direzione verso la quale dovrebbe andare: la massimizzazione del benessere collettivo, una direzione – val la pena scriverlo senza reticenze – quasi opposta rispetto a quella nella quale stanno facendo rotta le grandi fabbriche globali degli algoritmi, seguendo per la verità a passo accelerato la strada già battuta dalle big tech ai tempi di Internet.
Qui varrebbe la pena ricordare non le parole di un regolatore europeo ma quelle di uno straordinario innovatore e capitano di industria statunitense come Henry Ford: «C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti».
Già: per tutti, non solo per una sparuta pattuglia di oligopolisti dei dati e degli algoritmi fortissimamente concentrata in un paio di regioni del mondo che sta, peraltro, incrociando sempre di più il proprio straordinario potere tecno-finanziario con quello politico di un paio di superpotenze. Basta pensare al rapporto tra regolamentazione e industria automobilistica per convincersene: grazie alle regole oggi macchine e circolazione stradale sono più sicure e sarebbe almeno temerario sostenere che le regole abbiano strangolato fabbriche e mercati.
Guai, tuttavia, a confondere i principi con la realtà. Quando si dice che la regolamentazione ha un effetto positivo sull’innovazione e sulla società, infatti, inesorabilmente si pensa alla relazione tra buona regolamentazione e buona innovazione e, sfortunatamente, questa relazione è diversa da quella che si registra in questo momento nella società globale della quale non sono protagonisti né la migliore regolamentazione, né la migliore innovazione, per responsabilità equamente distribuite tra regolatori e fabbriche di algoritmi e, più in generale, tecnologie.
Vale la pena metterle sul tavolo senza far sconti a nessuno, iniziando – data la mia vicinanza di ruolo e funzioni ai regolatori – proprio dalla maggior responsabilità di chi scrive le leggi ed è chiamato a applicarle. Natalino Irti, giurista straordinario, raffinato e illuminato, negli anni ’70, puntando l’indice verso il florilegio di leggi speciali che minavano l’esaustività e la sistematicità dei codici scriveva che il compito principale dei regolatori è quello di offrire agli imprenditori regole certe nel rispetto delle quali fare impresa.
È quello che oggi manca di più o, per essere più severi – ma nemmeno troppo – nei confronti di Istituzioni, regolatori, Autorità e Agenzie è l’obiettivo che stiamo facendo più fatica a centrare. Non siamo in grado di dare a mercato e industria quella certezza del diritto che, invece, sarebbe nostro dovere creare e offrire per consentire poi agli imprenditori onesti di assumerla a vincolo di progettazione di qualsivoglia genere di prodigio tecnologico.
È una nostra responsabilità, va ammessa, senza ipocrisie. E, francamente, la circostanza che l’innovazione oggi galoppi a una velocità completamente inedita, credo possa essere, a voler essere generosi, una circostanza attenuante, ma non certamente un’esimente o una giustificazione.
Arriviamo tardi anche nei casi migliori e più virtuosi – e l’AI Act europeo è li a ricordarcelo – e non riusciamo a proporre le risposte delle quali chi fa impresa ha bisogno nel momento nel quale concorrenza e mercati le richiedono. E, però, le responsabilità non stanno tutte da questa parte del campo. La maggiore delle responsabilità dell’industria – fabbriche di algoritmi in testa – è pensare o, almeno dare a pensare, che la c.d. impossibilità tecnologica di rispettare le regole possa rappresentare un alibi per ignorare le regole vigenti.
Questo approccio è inammissibile e democraticamente insostenibile. Quello che sta accadendo, infatti, è che l’industria progetta e sviluppa tecnologie con scientifica consapevolezza della loro incompatibilità con le regole vigenti e, poi, quando viene chiamata a rispettarle, invoca l’esimente della pretesa impossibilità tecnologica, un’esimente che, a prescindere da ogni altra considerazione, evidentemente non può sollevare da responsabilità e colpe chi si è deliberatamente e consapevolmente posto nella condizione di non rispettare le regole.
Se si ha un’idea innovativa – ma innovativa per davvero nel senso evocato da Henry Ford ovvero capace di migliorare le condizioni di vita dell’umanità e non solo le proprie – e ci si rende conto che ci sono regole che inutilmente ne impediscono la realizzazione, in democrazia, si bussa alla porta dei regolatori e si chiede di cambiarle, dimostrando che la modifica produce effetti migliori rispetto al loro mantenimento in vigore.
Ma non si può sovrascrivere quelle regole a colpi di tecnologia perché quando questo avviene la tecnocrazia si sostituisce alla democrazia e, specie in un contesto in cui il potere tecnologico è saldamente nelle mani di pochissimi, lo scenario diventerebbe rapidamente insostenibile.
Ecco, forse è davvero arrivato il momento di chiuderci tutti – regolatori, indistry e società civile – dentro una grande aula globale, riconoscere le differenti responsabilità e firmare un new deal nell’interesse dell’umanità. L’attuale tensione tra regolamentazione e innovazione rischia di produrre effetti disastrosi nel breve e nel medio periodo, trasformando mercati e società in campi di battaglia nel quale si susseguono rappresaglie, azioni e reazioni tutte egualmente poco utili.
In attesa di quell’assemblea, di questo tema, tra tanti altri, parleremo a Cagliari, nei prossimi giorni, nel corso di SIOS25, un appuntamento da non mancare.